Italia! Il più bel paese del mondo

Discussion in 'Sezione Italiana' started by Air-Base, Apr 3, 2017.

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  1. embriaco

    embriaco User

    »Cosa c’è alla fine del buco più profondo della Terra?
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    Cosa c’è alla fine del buco più profondo della Terra?


    Cosa c’è alla fine del buco più profondo della Terra?

    Redazione Blue Planet Heart


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    Per rispondere a questa domanda basterebbe affermare: “rimuovi questo tappo di metallo arrugginito che vedi nella foto e troverai il buco più profondo della Terra”. Tuttavia, ed è davvero singolare, sappiamo molto di più su alcune galassie lontane che su ciò che sta pochi chilometri sotto i nostri piedi. Per questo motivo, gli scienziati sovietici nel 1970 hanno deciso di sondare il pianeta alla profondità più elevata che l’umanità abbia mai fatto prima e lo hanno fatto per i successivi 24 anni, spiengendosi sempre più all’interno della crosta terrestre.

    Il risultato che è stato ottenuto, con una trivella, è il Pozzo Superprofondo di Kola in Russia, un buco che raggiunge i 12 chilometri all’interno della crosta terrestre. Per mettere l’opera in prospettiva con ciò che conosciamo, basti pensare che il pozzo scende oltre il punto più profondo dell’oceano, che si trova a circa 11 chilometri, nella Fossa delle Marianne.

    Ma abbiamo imparato qualcosa da questi decenni di lavoro? Per fortuna, sì! Gli scienziati hanno trovato fossili microscopici di organismi unicellulari a 7 chilometri di profondità e, quasi alla stessa profondità, hanno scoperto l’acqua. Una scoperta è anche stata che la temperatura nella parte terminale del buco ha raggiunto i 180 °C, una temperatura troppo elevata per poter continuare la perforazione, ufficialmente interrotta nel 1994.

    Tuttavia, ciò che è ancora più impressionante è che gli scienziati stimano che la distanza dal centro della Terra è circa 6.400 chilometri. E il risultato raggiunto, di 12 km, sembra come un graffio nella superficie del pianeta.

    ..
    Intercontinental Shimao Wonderland: l’hotel a 7 stelle più profondo del mondo [FOTO]

    9 settembre 2015 - 22:17

    L’Intercontinental Shimao Wonderland, situato nel distretto di Songjiang, a 30 km da Shangai, è l’hotel a 7 stelle più profondo del mondo. Ha 380 stanze, un complesso termale con piscina, un acquario profondo 10 metri con vetrate che si affacciano su un ristorante subacqueo, parco divertimenti all’aperto, centro per sport estremo con arrampicata su roccia e bungee jumping, una sala congressi in grado di ospitare sino a 1000 persone

    Dal settore alberghiero arriva un’interessante novità che si sviluppa in profondità e non in altezza: parliamo dell’Intercontinental Shimao Wonderland, un hotel lussuosissimo a 7 stelle che avrà solo 3 piani sopra il livello del mare, mentre i restanti 16 saranno sotterranei. Situato nel distretto di Songjiang, a 30 km da Shangai, è in costruzione lungo il costone di una vecchia cava a lunga 240 metri, larga 160 e profonda 100 metri, inaugurata nel 1950 per l’estrazione di pietre ed abbandonata nel 2000, alla base della montagna Tianmashan. L’hotel di lusso, che avrà 380 stanze con un costo medio per stanza intorno ai 2000 yuan (poco più di 200 euro), è stato progettato dallo studio di architetti londinesi Atkins, per promuovere nuovi percorsi turistici e viaggi di vacanza nella regione, oltre che per valorizzare la vecchia cava.

    [​IMG]Il resort verrà completato probabilmente nel 2017. Al momento si stanno stabilizzando le pareti rocciose adiacenti l’hotel per fronteggiare l’alto rischio sismico della zona, e si sta lavorando sulle sue fondamenta. Nonostante le dimensioni faraoniche e il carattere ambizioso del progetto, l’impatto ambientale dell’hotel a 7 stelle sarà ridotto al minimo grazie al tetto verde alberato, all’utilizzo dell’energia geotermica per il riscaldamento e l’elettricità, ai pannelli solari fotovoltaici. Tra i servizi offerti: un complesso termale con piscina, un acquario profondo 10 metri con vetrate che si affacciano su un ristorante subacqueo, parco divertimenti all’aperto, centro per sport estremo con arrampicata su roccia e bungee jumping, una sala congressi in grado di ospitare sino a 1000 persone. Nell’hotel, in costruzione in una location suggestiva, di forte impatto scenografico, non mancherà di certo lo spazio per giochi interattivi, possibilità di shopping e intrattenimento. Il progetto dell’Intercontinental Shimao Wonderland si è aggiudicato nel 2011 la medaglia d’oro al MIPIM Asia Awards , arrivando finalista al World Architecture Festival del 2009.
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  2. embriaco

    embriaco User

    Emilio Salgari - Le tigri di Mompracem (1900)
    Capitolo I - I pirati di Mompracem
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    Capitolo I
    I pirati di Mompracem
    La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Borneo.
    Pel cielo, spinte da un vento irresistibile, correvano come cavalli sbrigliati, e mescolandosi confusamente, nere masse di vapori, le quali, di quando in quando, lasciavano cadere sulle cupe foreste dell’isola furiosi acquazzoni; sul mare, pure sollevato dal vento, s’urtavano disordinatamente e s’infrangevano furiosamente enormi ondate, confondendo i loro muggiti cogli scoppi ora brevi e secchi ed ora interminabili delle folgori.
    Né dalle capanne allineate in fondo alla baia dell’isola, né sulle fortificazioni che le difendevano, né sui numerosi navigli ancorati al di là delle scogliere, né sotto i boschi, né sulla tumultuosa superficie del mare, si scorgeva alcun lume; chi però, venendo da oriente, avesse guardato in alto, avrebbe scorto sulla cima di un’altissima rupe, tagliata a picco sul mare, brillare due punti luminosi, due finestre vivamente illuminate.
    Chi mai vegliava in quell’ora e con simile bufera, nell’isola dei sanguinari pirati?
    Tra un labirinto di trincee sfondate, di terrapieni cadenti, di stecconati divelti, di gabbioni sventrati, presso i quali scorgevansi ancora armi infrante e ossa umane, una vasta e solida capanna s’innalzava, adorna sulla cima di una grande bandiera rossa, con nel mezzo una testa di tigre.
    Una stanza di quell’abitazione è illuminata, le pareti sono coperte di pesanti tessuti rossi, di velluti e di broccati di gran pregio, ma qua e là sgualciti, strappati e macchiati, e il pavimento scompare sotto un alto strato di tappeti di Persia, sfolgoranti d’oro, ma anche questi lacerati e imbrattati.
    Nel mezzo sta un tavolo d’ebano, intarsiato di madreperla e adorno di fregi d’argento, carico di bottiglie e di bicchieri del più raro cristallo; negli angoli si rizzano grandi scaffali in parte rovinati, zeppi di vasi riboccanti di braccialetti d’oro, di orecchini, di anelli, di medaglioni, di preziosi arredi sacri, contorti o schiacciati, di perle provenienti senza dubbio dalle famose peschiere di Ceylan, di smeraldi, di rubini e di diamanti che scintillano come tanti soli, sotto i riflessi di una lampada dorata sospesa al soffitto.
    In un canto sta un divano turco colle frange qua e là strappate; in un altro un armonium di ebano colla tastiera sfregiata e all’ingiro, in una confusione indescrivibile, stanno sparsi tappeti arrotolati, splendide vesti, quadri dovuti forse a celebri pennelli, lampade rovesciate, bottiglie ritte o capovolte, bicchieri interi o infranti e poi carabine indiane rabescate, tromboni di Spagna, sciabole, scimitarre, accette, pugnali, pistole.
    In quella stanza così stranamente arredata, un uomo sta seduto su una poltrona zoppicante: è di statura alta, slanciata, dalla muscolatura potente, dai lineamenti energici, maschi, fieri e d’una bellezza strana.
    Lunghi capelli gli cadono sugli omeri: una barba nerissima gli incornicia il volto leggermente abbronzato.
    Ha la fronte ampia, ombreggiata da due stupende sopracciglia dall’ardita arcata, una bocca piccola che mostra dei denti acuminati come quelli delle fiere e scintillanti come perle; due occhi nerissimi, d’un fulgore che affascina, che brucia, che fa chinare qualsiasi altro sguardo.
    Era seduto da alcuni minuti, collo sguardo fisso sulla lampada, colle mani chiuse nervosamente attorno alla ricca scimitarra, che gli pendeva da una larga fascia di seta rossa, stretta attorno ad una casacca di velluto azzurro a fregi d’oro. Uno scroscio formidabile, che scosse la gran capanna fino alle fondamenta, lo strappò bruscamente da quella immobilità. Si gettò indietro i lunghi e inanellati capelli, si assicurò sul capo il turbante adorno di uno splendido diamante, grosso quanto una noce, e si alzò di scatto, gettando all’intorno uno sguardo nel quale leggevasi un non so che di tetro e di minaccioso.
    - È mezzanotte - mormorò egli. - Mezzanotte e non è ancora tornato!
    Vuotò lentamente un bicchiere pieno di un liquido color dell’ambra, poi aprì la porta, s’inoltrò con passo fermo fra le trincee che difendevano la capanna e si fermò sull’orlo della gran rupe, alla cui base ruggiva furiosamente il mare. Stette là alcuni minuti colle braccia incrociate, fermo come la rupe che lo reggeva, aspirando con voluttà i tremendi soffi della tempesta e spingendo lo sguardo sullo sconvolto mare, poi si ritirò lentamente, rientrò nella capanna e si arrestò dinanzi all’armonium.
    - Quale contrasto! - esclamò. - Al di fuori l’uragano e qua io! Quale il più tremendo?
    Fece scorrere le dita sulla tastiera, traendo dei suoni rapidissimi e che avevano qualche cosa di strano, di selvaggio e che poi rallentò, finché si spensero fra gli scrosci delle folgori ed i fischi del vento.
    Ad un tratto volse vivamente il capo verso la porta lasciata semiaperta. Stette un momento in ascolto, curvo innanzi, cogli orecchie tesi, poi uscì rapidamente, spingendosi fino sull’orlo della rupe.
    Al rapido chiarore di un lampo vide un piccolo legno, colle vele quasi ammainate, entrare nella baia e confondersi in mezzo ai navigli ancorati. Il nostro uomo accostò alle labbra un fischietto d’oro e mandò tre note stridenti; un fischio acuto vi rispose un momento dopo.
    - È lui! - mormorò con viva emozione. - Era tempo!
    Cinque minuti dopo un essere umano, avvolto in un ampio mantello grondante d’acqua, si presentava dinanzi alla capanna.
    - Yanez! - esclamò l’uomo dal turbante, gettandogli le braccia al collo.
    - Sandokan! - rispose il nuovo venuto, con un accento straniero marcatissimo. - Brr! Che notte d’inferno, fratellino mio.
    - Vieni!
    Attraversarono rapidamente le trincee ed entrarono nella stanza illuminata, chiudendo la porta.
    Sandokan riempì due bicchieri e porgendone uno allo straniero che si era sbarazzato del mantello e della carabina che portava ad armacollo, gli disse, con accento quasi affettuoso:
    - Bevi, mio buon Yanez.
    - Alla tua salute, Sandokan.
    - Alla tua.
    Vuotarono i bicchieri e si assisero dinanzi al tavolo.
    Il nuovo arrivato era un uomo sui trentatré o trentaquattro anni, cioè un po’ più anziano del compagno. Era di media statura, robustissimo, dalla pelle bianchissima, i lineamenti regolari, gli occhi grigi, astuti, le labbra beffarde, e sottili, indizio di una ferrea volontà. A prima vista si capiva che era un europeo non solo, ma che doveva appartenere a qualche razza meridionale.
    - Ebbene, Yanez, - chiese Sandokan, con una certa emozione, - hai veduta la fanciulla dai capelli d’oro?
    - No, ma so quanto volevi sapere.
    - Non sei andato a Labuan?
    - Sì, ma capirai che su quelle coste guardate dagli incrociatori inglesi, riesce difficile lo sbarco a gente della nostra specie.
    - Parlami di questa fanciulla. Chi è?
    - Ti dirò che è una creatura meravigliosamente bella, tanto bella da essere capace di stregare il più formidabile pirata.
    - Ah! - esclamò Sandokan.
    - Mi dissero che ha i capelli biondi come l’oro, gli occhi più azzurri del mare, le carni bianche come l’alabastro. So che Alamba, uno dei nostri più feroci pirati, la vide una sera passeggiare sotto i boschi dell’isola e che fu tanto colpito da quella bellezza da fermare la sua nave per meglio contemplarla, a rischio di farsi massacrare dagli incrociatori inglesi.
    - Ma a chi appartiene?
    - Da alcuni si dice che sia figlia di un colono, da altri di un lord, da altri ancora che sia nientemeno che parente del governatore di Labuan.
    - Strana creatura - mormorò Sandokan, comprimendosi colle mani la fronte.
    - E così?... - chiese Yanez.
    Il pirata non rispose. Si era bruscamente alzato in preda ad una viva emozione e si era portato dinanzi all’armonium, facendo scorrere le dita sui tasti.
    Yanez si limitò a sorridere e, staccata da un chiodo una vecchia mandola, si mise a pizzicarne le corde, dicendo:
    - Sta bene! Facciamo un po’ di musica.
    Aveva però appena cominciato a suonare un’arietta portoghese, allorquando vide Sandokan avvicinarsi bruscamente al tavolo, puntandovi sopra le mani con tale violenza da farlo piegare.
    Non era più lo stesso uomo di prima: la sua fronte era burrascosamente aggrottata, i suoi occhi mandavano cupi lampi, le sue labbra, ritiratesi, mostravano i denti convulsamente stretti, le sue membra fremevano. In quel momento egli era il formidabile capo dei feroci pirati di Mompracem, era l’uomo che da dieci anni insanguinava le coste della Malesia, l’uomo che per ogni dove aveva dato terribili battaglie, l’uomo la cui straordinaria audacia, l’indomito coraggio gli avevano valso il nomignolo di Tigre della Malesia.
    - Yanez! - esclamò egli con un tono di voce, che più nulla aveva d’umano. - Che cosa fanno gl’inglesi a Labuan?
    - Si fortificano - rispose tranquillamente l’europeo.
    - Forse che tramano qualche cosa contro di me?
    - Lo credo.
    - Ah! Tu lo credi? Che osino alzare un dito contro la mia Mompracem! Di’ a loro che si provino a sfidare i pirati nei loro covi! La Tigre li distruggerà fino all’ultimo e berrà tutto il loro sangue. Dimmi, che cosa dicono di me?
    - Che è ora di finirla con un pirata così audace.
    - E mi odiano molto?
    - Tanto che s’accontenterebbero di perdere tutte le loro navi, pur di appiccarti.
    - Ah!
    - Dubiti forse? Fratellino mio, sono molti anni che tu ne commetti una peggiore dell’altra. Tutte le coste portano le tracce delle tue scorrerie; tutti i villaggi e tutte le città sono state da te assalite e saccheggiate; tutti i forti olandesi, spagnoli e inglesi hanno ricevuto le tue palle e il fondo del mare è irto di navi da te mandate a picco.
    - È vero, ma di chi la colpa? Forse che gli uomini di razza bianca non sono stati inesorabili con me? Forse che non mi hanno detronizzato col pretesto che io diventavo troppo potente? Forse che non hanno assassinato mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, per distruggere la mia discendenza? Quale male avevo io fatto a costoro? La razza bianca non aveva mai avuto da dolersi di me, eppure mi volle schiacciare. Ora io li odio, siano spagnoli, od olandesi, o inglesi o portoghesi tuoi compatrioti, io li esecro e mi vendicherò terribilmente di loro, l’ho giurato sui cadaveri della mia famiglia e manterrò il giuramento!
    «Se sono però stato spietato coi miei nemici, qualche voce spero si alzerà per dire che talvolta sono stato generoso.»
    - Non una, bensì cento, mille voci possono ben dire che tu sei stato coi deboli perfin troppo generoso - disse Yanez. - Possono dirlo tutte quelle donne cadute in tuo potere che tu hai condotte, a rischio di farti colare a picco dagli incrociatori, nei porti degli uomini bianchi; possono dirlo le deboli tribù che tu hai difeso contro le razzie dei prepotenti, i poveri marinai privati dei loro legni dalle tempeste e che tu hai salvati dalle onde e coperti di regali, e cento, e mille altri che ricorderanno sempre i tuoi benefici, o Sandokan.
    «Ma dimmi ora, fratellino mio, che cosa vuoi concludere?»
    La Tigre della Malesia non rispose. Si era messo a passeggiare per la stanza colle braccia incrociate e la testa china sul petto. A che pensava quel formidabile uomo? Il portoghese Yanez, quantunque lo conoscesse da lungo tempo, non sapeva indovinarlo.
    - Sandokan, - disse dopo qualche minuto, - a che cosa pensi?
    La Tigre si fermò guardandolo fisso, ma ancora non rispose.
    - Hai qualche pensiero che ti tormenta? - riprese Yanez. - Toh! Si direbbe che ti crucci perché gl’inglesi ti odiano molto.
    Anche questa volta il pirata stette zitto.
    Il portoghese si alzò, accese una sigaretta e si diresse verso una porta nascosta dalla tappezzeria, dicendo:
    - Buona notte, fratellino mio.
    Sandokan a quelle parole si scosse e, fermando con un gesto il portoghese, disse:
    - Una parola, Yanez.
    - Parla adunque.
    - Sai che voglio andare a Labuan?
    - Tu!... A Labuan!...
    - Perché tanta sorpresa?
    - Perché tu sei troppo audace e commetteresti qualche pazzia nel covo del tuoi più accaniti nemici.
    Sandokan lo guardò con due occhi che mandavano fiamme ed emise una specie di sordo ruggito.
    - Fratello mio, - riprese il portoghese, - non tentare troppo la fortuna. Sta’ in guardia! L’affamata Inghilterra ha messo gli occhi sulla nostra Mompracem e forse non aspetta che la tua morte per gettarsi sui tuoi tigrotti e distruggerli. Sta’ in guardia, poiché ho veduto un incrociatore irto di cannoni e zeppo d’armati ronzare nelle nostre acque, e quello là è un leone che altro non attende che una preda.
    - Ma incontrerà la Tigre! - esclamò Sandokan, stringendo i pugni e fremendo dai piedi al capo.
    - Sì, la incontrerà e forse nella pugna soccomberà, ma il suo grido di morte giungerà fino sulle coste di Labuan ed altri muoveranno contro di te. Morranno molti leoni, poiché tu sei forte e tremendo, ma morrà anche la Tigre!
    - Io!...
    Sandokan aveva fatto un salto innanzi, colle braccia contratte pel furore, gli occhi fiammeggianti, le mani raggrinzate come se stringessero delle armi. Fu però un lampo: si sedette dinanzi al tavolo, tracannò d’un sol fiato una tazza rimasta piena e disse con voce perfettamente calma:
    - Hai ragione, Yanez; tuttavia io andrò domani a Labuan. Una forza irresistibile mi spinge verso quelle spiagge, e una voce mi sussurra che io devo vedere la fanciulla dai capelli d’oro, che io devo...
    - Sandokan!...
    - Silenzio fratellino mio: andiamo a dormire.
     
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  3. olandiano

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  4. embriaco

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    La storia di Corto Maltese

    Il mio nome è Corto, Corto Maltese.
    Sono nato a Malta, il 10 luglio del 1887, almeno così mi dicono.
    Della mia prima infanzia ricordo una bandiera piena di croci e una barba rossa, quella di mio padre. Mia madre? Una gitana di Siviglia. Era talmente bella che il pittore Ingres se ne innamorò follemente, non so se sia vero, lei non mi parlava mai di queste cose.
    Ricordo una casa bellissima con un patio pieno di fiori vicino alla moschea di Cordoba, e ricordo bene il giorno in cui un’amica di mia madre mi prese la mano sinistra e la guardò inorridita, non avevo la linea della fortuna. Non ci pensai molto, presi un rasoio di mio padre e me ne tracciai una da solo, lunga e profonda. Non credo di aver aumentato la mia dose di fortuna, ma sono sempre stato libero e questo basta.
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    Mio padre se ne andava in continuazione e tornava sempre meno. Lui veniva da Tintagel, in Cornovaglia, un posto pieno di fate e maghi. Sosteneva di essere il nipote di una strega di Man che aveva un gatto rosso, ma diceva un sacco di cose quando si perdeva fra le bottiglie.
    Ho studiato alla scuola ebraica de La Valletta e poi a Cordoba con il rabbino Ezra Toledano, fu lui a iniziarmi alla Torah e a raccontarmi altre storie segrete.
    In ogni caso, quello che ricordo meglio fu il giorno in cui partii da Malta e m’imbarcai sul Vanità Dorata, un magnifico tre alberi, da allora ho sempre navigato in giro per il mondo.
    Conobbi Rasputin, Jack London e tanti altri, imparai a ballare il tango a Buenos Aires, nelle Antille e in Brasile conobbi Esmeralda e i riti vudù. E poi ci furono le Indie, la Cina, le isole dei Caraibi fra pigre verande e sparatorie e quelle del Pacifico, con Escondida, la più strana fra tutte, fra monaci e corsari. Ho visto un treno carico d’oro precipitare in un lago ghiacciato in Mongolia, ho condiviso i silenzi del deserto con un guerriero, il verde e le lacrime con una bellissima fata irlandese, ho cercato gioielli e sogni impossibili lungo i canali e sopra i tetti di Venezia.
    Non sono un eroe, mi piace viaggiare e non amo le regole, ma ne rispetto una soltanto, quella di non tradire mai gli amici.
    Ho cercato tanti tesori senza mai trovarne uno, ma continuerò sempre, potete contarci, ancora un po’ più in là…
    1887
    Corto Maltese nasce il 10 luglio 1887 a La Valletta (Malta). Il padre è un marinaio inglese, originario di Tintagel, in Cornovaglia, la madre è una gitana di Siviglia. I genitori si sono conosciuti a Gibilterra, dove la madre era conosciuta con il nome di “La niña di Gibilterra” e sembra sia stata una modella del pittore Ingres (1780-1867)
    1887-1903
    Corto Maltese trascorre la sua infanzia a Gibilterra, quindi a Cordoba dove abita nel quartiere ebreo. Frequenta la scuola ebraica di La Valletta, diretta dal rabbino Ezra Toledano (amante della madre quando si trovavano a Cordoba). All’epoca della “Guerra dei Boxers” (giugno-agosto 1900) Corto si ritrova in Cina.
    1904
    All’inizio dell’anno Corto s’imbarca a La Valletta come marinaio sul Vanità Dorata e inizia i suoi viaggi. Fa scalo in Egitto, dove visita le piramidi di Giza. A febbraio raggiunge Ismailia poi fa scalo ad Aden, Mascate, Karachi, Bombay, Colombo, Madras, Rangoon, Singapore, Kowloon, Shanghai e Tien’Tsin.
    1904-1905
    Verso la fine del 1904 Corto arriva in Manciuria, all’epoca della guerra russo-giapponese (febbraio 1904-settembre 1905). A Mukden, oggi Shenyang, frequenta la famiglia Song, diventa amico dello scrittore americano Jack London, all’epoca corrispondente di guerra, e incontra Rasputin, un giovane disertore di un reggimento di fucilieri siberiani. Insieme al russo arrivano a Tien’Tsin e s’imbarcano verso l’Africa alla ricerca delle miniere d’oro della Dancalia. Su questo periodo si svolge la storia: “La giovinezza”.
    1905-1906
    A bordo della nave, nel Mar di Celebes, avviene un ammutinamento e Corto e Rasputin, raccolti da un mercantile, raggiungono Valparaiso in Cile e da qui, in treno, arrivano a Santiago e poi in Argentina nel 1905. A Cholila, in Patagonia, incontrano i fuorilegge statunitensi Butch Cassidy, Sundance Kid e Etta Place.
    1906-1907
    Ricominciano i viaggi di Corto. Nel 1907 si trova ad Ancona, dove incontra il rivoluzionario russo Dzugasvili, allora portiere d’albergo, che diventerà Stalin. Nel 1908 ritorna in Argentina e, all’Hotel Drowning Maud incontra Jack London e il drammaturgo americano Eugene O’Neill.
    1908-1913
    Nel 1909 Corto è a Marsiglia, e poi a Trieste, dove incontra lo scrittore James Joyce. Nel 1910 è ufficiale in seconda sul Bostonian che trasporta bestiame fra Boston e Liverpool. Nel 1911 arriva in Tunisia, nello stesso anno parte in nave per l’Argentina, ma scende in Brasile, a Salvador de Bahia, dove passa diverso tempo a Itapoa, ma nello stesso periodo viaggia verso le Antille, nella Nuova Orleans, in India, e in Cina nel 1913.
    1913
    Corto percorre in lungo e largo l’Indonesia e il Pacifico meridionale: Surabaya (Giava), le Isole Samoa, le Isole Tonga. In questo periodo, diventato pirata, lavora per un personaggio misterioso, il “Monaco”. Il 31 ottobre però, l’equipaggio di Corto Maltese si ammutina e lo abbandona al largo delle Isole Salomone. Il giorno dopo, Corto viene soccorso da Rasputin anch’egli pirata e complice del “Monaco”. Il 1° novembre 1913 è proprio l’inizio de UnaBallata del Mare Salato.
    1914
    Corto e Rasputin sono nel Pacifico, fra Nuova Guinea, arcipelago delle Bismarck, Isola Escondida (169° longitudine Ovest e 19° latitudine Sud, cioè nelle vicinanze dell’Isola di Niue).
    1915
    Il 19 gennaio, Corto e Rasputin lasciano Escondida, in direzione dell’Isola di Pitcairn. Fine di Una Ballata del Mare Salato. Da Pitcairn faranno scalo all’Isola di Pasqua, all’Isola di Sala y Gomez, a Iquique (Cile), a Callao (Perù), a Guayaquil (Ecuador) e arrivano a Panama in agosto.
    1916
    Corto Maltese e Rasputin si lasciano a Panama. Corto, accompagnato dal professor Jeremiah Steiner, dell’Università di Praga e dal giovane Tristan Bantam, conosce, negli anni 1916-17, tutta una serie di avventure in America Latina, riunite negli albi Suite Caraibeana, Mare d’Oro, Lontane isole del vento e La laguna dei misteri. Inizia da Paramaribo (Guayana Olandese, oggi Suriname) con Il segreto di Tristan Bantam, quindi a Saint-Laurent-de-Maroni (Guayana Francese) e Salvador de Bahia (Brasile) nella storia Appuntamento a Bahia, in seguito nel “sertào” brasiliano in Samba con Tiro Fisso, dove incontra per la prima volta la maga Bocca Dorata e infine nell’Isola di Marajo, alle foci del Rio delle Amazzoni in Un’Aquila nella giungla.
    1917
    E’ l’anno più intenso: sette episodi che si svolgono in America latina (la fine di Suite caraibeana e Mare d’Oro, Lontane isole nel vento e La laguna dei misteri), quindi quattro storie in Europa (inizio della storie Le Celtiche), per Corto Maltese un’avventura al mese di media, da febbraio a dicembre.
    Gli 11 episodi del 1917

    • …e riparleremo di gentiluomini di fortuna, dove Corto ritrova Rasputin nelle Antille, a Saint Kitts.
    • Per colpa di un gabbiano, che si svolge nell’Honduras britannico (oggi Belize).
    • Teste e funghi (primo capitolo di Corto sempre un po’ più in là) ambientato a Maracaibo, in Venezuela.
    • La Conga delle banane, ambientata in Honduras e che vede la comparsa di Veneziana Stevenson e di Esmeralda che Corto ha conosciuto a Buenos Aires quand’era una bambina, la mamma di Esmeralda, “Parda Flora” amava Corto.
    • Vudù per il Presidente, che sisvolge alle Barbados (Antille) e poi all’isola di Port Ducal introvabile nelle mappe, ma che Pratt colloca a sud-ovest della Guadalupa.
    • La laguna dei bei sogni, nel delta dell’Orinoco.
    • Nonni e fiabe, nella foresta amazzonica peruviana.
    • L’angelo alla finestra d’Oriente primo capitolo della storia Le Celtiche, tutto ambientato a Venezia.
    • Sotto la bandiera dell’oro, che si può datare in ottobre (dopo la battaglia di Caporetto del 24 ottobre 1917), dove Corto incontra Ernest Hemingway che lavorava come autista di un’autoambulanza. La storia si svolge nel Mar Adriatico e poi a Ulcinj in Montenegro.
    • Concerto in O minore per arpa e nitroglicerina, a Dublino, in Irlanda.
    • Sogno di un mattino di mezzo inverno, ambientata in Inghilterra (a Stonehenge e forse a Tintagel), verso il 21 dicembre, data del solstizio d’inverno, proprio perché il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare si svolge il 24 giugno, festa di San Giovanni, quando si festeggia il solstizio d’estate.
    1918
    Corto Maltese in primavera si trova in Francia, infatti i due ultimi capitoli della storia Le Celtiche: Cotes de Nuits e rose di Piccardia si svolgono il 20 e 21 aprile sulla Somme, tra Corby e Bray (Corto qui assiste alla morte del Barone Rosso cioè l’Asso dell’aviazione tedesca Manfred von Richthofen, abbattuto a Vaux-sur-Somme) Burlesca e no tra Zuydcoote e Bray Dunes, si svolge invece sulle spiagge del Mare del Nord.
    [​IMG]Un mese dopo Corto si ritrova a Turban (al-Turba?) nello Yemen (In nome di Allah misericordioso e compassionevole, dove incontra Cush, questo episodio costituisce il primo capitolo della storia Le Etiopiche). A settembre, Corto si trova nella Somalia Britannica (L’ultimo colpo si svolge in una sola giornata, il 13 settembre), poi passa in Etiopia (Di altri Romei e altre Giuliette), e infine in Africa orientale tedesca (oggi Tanzania): quest’ultimo episodio, Leopardi, è datato ottobre 1918.
    L’11 novembre Corto si ritrova a Hong Kong, dove possiede una casa (ma il suo domicilio legale è ad Antigua, nelle Antille); qui apprende della fine della guerra e ritrova Rasputin: così comincia Corte Sconta detta Arcana.
    1919
    Corto è a Shanghai, poi ai confini della Manciuria, della Mongolia e della Siberia, nella regione della città di Manchouli.
    1920
    Corto, fra la regione di Manchouli e del Lago Dali Nor (o Hulun Nur), viene ferito in un’azione volta a distruggere il treno blindato del generale Tchang (febbraio). Riesce comunque a raggiungere Hong kong via Hailar (Mongolia Interna) e Harbin, in Cina. Giunge ad Hong Kong nella prima quindicina di marzo e, poco dopo il 15 dello stesso mese riparte per la provincia cinese dello Kiang Si (o Xian Jiang) dove, nell’aprile del 1920 finisce Corte Sconta detta Arcana.
    1921
    Corto è a Venezia. Dal 9 al 25 aprile si svolge la storia Favola di Venezia. In autunno, Corto parte per Rodi dove ha inizio l’episodio La Casa dorata di Samarcanda.
    1921-1922
    [​IMG]Per circa un anno, Corto Maltese va alla ricerca del tesoro di Alessandro Magno (che riuscirà a intravedere) e di Rasputin (che riuscirà invece a ritrovare). Partito da Rodi, arriva ad Adana (Turchia) in dicembre, attraversa il paese fino a Van, passa in Azerbaijian, raggiunge il Mar Caspio (che attraversa in battello da Baku a Krasnovodsk), per arrivare nell’emirato di Bukhara, dove raggiunge Rasputin appena uscito da una prigione chiamata “la casa dorata di Samarcanda”, nelle vicinanze di Baldjouan, a sud-est di Duchambe (oggi capitale del Tajikistan). Qui Corto e Rasputin sono testimoni della morte del generale Enver Pacha (4 agosto 1922). In seguito vanno in Kafiristan (regione dell’Afghanistan, oggi chiamata Nuristan). La casa dorata di Samarcanda finisce il 6 settembre 1922, quando Corto e Rasputin oltrepassano il confine tra Afghanistan e Pakistan (che all’epoca faceva parte dell’impero delle Indie).
    1923
    All’inizio di giugno, Corto Maltese ritorna in Argentina. Dopo quindici anni ci arriva a bordo del piroscafo Le Malte della compagnia degli Spedizionieri Riuniti, che faceva rotta tra Amburgo e Buenos Aires. Il 13 giugno inizia Tango che terminerà nella notte del 20 giugno.
    1924
    Corto visita tutti i cantoni svizzeri. Nelle Elvetiche, dopo un ritiro nel piccolo villaggio di Savuit-sur-Lutry (Cantone di Vaud), in autunno Corto e il professor Steiner andranno a Montagnola (Cantone Ticino) dallo scrittore Hermann Hesse, in seguito Corto andrà a Zurigo con la pittrice Tamara de Lempicka.
    1924-1925
    A Tarifa (punta all’estremo Sud della Spagna), Corto e Rasputin ricevono dal Venezuela un telegramma del loro amico Levi Colombia che li invita ad una crociera nei Caraibi alla ricerca di Atlantide. Inizia la storia di .
    1925-1936
    Non si sa molto della vita di Corto Maltese in questo periodo. Si sa che nel dicembre 1928 e nel gennaio 1929 si trova ad Harar (la città etiopica dove visse Rimbaud) in compagnia del romanziere Henry de Montfreid e del paleontologo e teologo Teilhard de Chardin.
    1936
    Nel luglio 1936 inizia la guerra civile spagnola che durerà fino al maggio 1939. Corto si arruola nelle Brigate internazionali combattendo con John Cornford (figlio della poetessa inglese Frances Croft Cornford, nipote di Darwin). Poi si perdono le tracce di Corto.
    Ne Gli scorpioni del deserto, Cush, nel gennaio del 1941, dice a proposito di Corto Maltese: “Sembra che sia scomparso durante la guerra di Spagna”; si apprende così che Corto ha spedito a Cush dalla Spagna un falco, Al-Andaluz.
    Dopo il 1936. Scomparso dopo l’”ultima avventura romantica”, la guerra civile spagnola? Potrebbe essere, ma ci sarebbe una lettera, scritta da Pandora in cui si racconta che Corto e Tarao, ormai di una certa età sono andati a vivere da lei e vengono considerati dai suoi figli come degli “zii”…
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    Corto Maltese

    Corto Maltese è da sempre considerato molto di più di un semplice fumetto per ragazzi. Lo stesso Pratt, preferiva chiamare la sua opera”letteratura disegnata” piuttosto che banali fumetti

    Per i pochi che non conoscessero Corto Maltese, è il protagonista di una serie di fumetti ideati e creati dal maestro Hugo Pratt negli anni ’60. Avventuriero, corsaro, esploratore e cacciatore di tesori, le sue avventure hanno stregato intere generazioni di giovani e continuano a farlo oggi. Certo è che sembrerà strano agli occhi di molti la scelta di un personaggio di fantasia per la rubrica degli “Homines”. Che posto può avere un eroe di fumetti, in mezzo ai grandi personaggi che hanno scolpito la storia degli uomini? Corto Maltese è da sempre considerato molto di più di un semplice fumetto per ragazzi. Lo stesso Pratt, preferiva chiamare la sua opera “letteratura disegnata” piuttosto che banali fumetti. Le innumerevoli referenze letterarie e storiche presenti nell’opera, i personaggi realmente esistiti che compaiono nelle varie vicende, e la profondità dei discorsi ne fanno un’opera che ha interessato non solo gli adolescenti.
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    Corto Maltese: il camerata, l’anti-fascista, il massone…?
    «Da che parte sta Corto Maltese?»​
    Con questa domanda Umberto Eco cercava di capire, in maniera ironica e disinteressata, un qualcosa che altri hanno cercato d’analizzare per puri scopi propagandistici: l’orizzonte politico di Corto Maltese. In molti hanno provato, più o meno esplicitamente, più o meno provocatoriamente, a etichettare il pirata, senza mai riuscire definitivamente a chiudere il dibattito. Storicamente, infatti, il Maltese è considerato nell’immaginario collettivo come appartenente alla “nebulosa della sinistra”. Figlio di una prostituta zingara, vero e proprio nomade (senza casa né famiglia), libertino nei modi, Corto ha sempre esercitato un certo fascino nell’universo della sinistra, universo che non ha mai perso l’occasione per appropriarsi dell’eroe. Eppure, molti si scordano che Corto è un capitano, ergo un militare di marina. E la tradizione marinara inglese dell’epoca (suo padre anche era un marinaio inglese) girava intorno a quattro parole d’ordine:
    Comando, Disciplina, Gerarchia e Ventura
    Si scordano che Corto crede nelle tradizioni culturali, nelle leggende, senza abbandonarsi alla logica cieca del progresso e della ragione. Corto per esempio in Corte Sconta detta arcana, avrà ammirazione per il celebre barone Maximilian Von Ungern-Sternberg (personaggio realmente esistito): aristocratico discendente dei teutoni che, a capo della sua banda a cavallo e al grido di «Avanti, alla ricerca delle nostre follie e delle nostre glorie», promette di schiacciare i rivoluzionari rossi. Si capisce che Corto non sia proprio di sinistra… Di destra allora? “Camerata Corto Maltese”, così s’intitolava una recente conferenza organizzata a Roma sul marinaio, che aveva come scopo quello di analizzare le possibili “attitudini fasciste” del marinaio. È vero che Corto crede nell’amicizia cameratesca, è vero che lo stesso Pratt ha combattuto nella Decima Flottiglia Mas, ma è anche vero che l’unico fascista che appare in tutta l’opera di Pratt, è anche l’unico a ricevere un bel calcio “scorretto”, in mezzo alle gambe. E poi, Corto non è nazionalista, non crede nei Paesi…
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    Non è tutto: addirittura le logge massoniche italiane e non, hanno provato a incollare un’etichetta al marinaio. Anche in questo caso, vi sono verità e supposizioni. È vero che Pratt era un massone iscritto alla loggia Hermes di Venezia, ed è anche vero che il simbolismo esoterico legato alla massoneria e all’iniziazione è assai presente. Ma è lo stesso Corto a denigrare quest’ultima etichetta. Mentre piomba (per sbaglio) in una riunione di “liberi muratori”, alla domanda «siete per caso un libero muratore?» il Maltese risponde seccamente:
    «No. No. Spero di essere solamente un libero marinaio»​
    Quando, sempre nella Favola di Venezia, gli chiederanno «Ma, allora… lei è un iniziato», dirà:
    «No! Sono semplicemente informato. Io non credo né ai dogmi né alle bandiere»​
    L’essenza inafferrabile di Corto Maltese
    No, Corto Maltese va oltre tutto ciò. Va oltre la troppo semplice dialettica politica; va oltre gli schemi “destra – sinistra” o “fascista – comunista”, va oltre il concetto di etichette. Come disse lo stesso marinaio nell’avventura Mu, la città perduta:
    «Non hanno ancora capito che le migliori risposte si danno quando non ci sono domande»
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    Vi è in Corto un’essenza più profonda, molto più difficile da afferrare. L’epoca in cui vive Corto, inizio del ventesimo secolo, è ambigua. Le grandi scoperte geografiche sono già state fatte (l’ultima sarà l’incredibile corsa del polo sud tra Scott e Amundsen negli anni ‘20), le mappe del mondo sono complete, gli avventurieri come Cook o Bougainville non esistono più. Le corazzate di ferro hanno sostituito definitivamente i galeoni, i mercantili e i battelli a vapore hanno fatto lo stesso con i velieri. È un mondo che cambia: in giro si dice che non vi è più spazio per le avventure romantiche e per i giovani sognatori Eppure Corto riesce, grazie al suo inguaribile romanticismo, a vivere storie invidiabili, soprattutto in tempi come questi. Perché il Maltese è prima di tutto un sognatore e un romantico, e anche in un’epoca di cambiamenti travolgenti, riesce a vivere sogni incredibili. Pratt crea il suo personaggio nei decenni che vedono il delirio consumistico e capitalistico prendere forma. Nasce proprio in quegli anni sessanta del miracolo economico, e il peso del suo messaggio si mette proprio di traverso alla logica consumista e materialista di una società italiana e occidentale in mutamento continuo.
    Il mondo reale pensa alla materia, Corto Maltese odia il materialismo.
    “Il tesoro”, inteso come scopo ultimo di un’avventura e fonte di arricchimento, non si trova mai. L’avventura è l’unico tesoro possibile.
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    «Dio solo sa quanto è brutto vivere in un mondo senza avventure, senza fantasia, senza allegria. Dimmi che mi capisci, Corto!» «Ti capisco, Rasputin»
    Corto non vive e soprattutto non combatte per le ricchezze materiali e l’oro, ma piuttosto per il benessere morale del suo Essere, per un qualcosa. Corto Maltese fugge dalla materia.Tutto ciò fa pensare che Corto Maltese non è comprensibile perché è unico. Impossibile etichettarlo, poiché la sua è una filosofia essenziale e indecifrabile perché mistica, e soprattutto, spirituale. Non è un caso che il Maltese, in “Le elvetiche “Rosa Alchemica” voglia proprio incontrare Herman Hesse, il grande scrittore tedesco premio Nobel della letteratura, e grande filosofo esistenzialista. Già, si può non essere schiavi di un’etichetta, si può non essere schedati, si può rimanere se stessi senza giudizi e paraocchi, e il Maltese lo dimostra divinamente. Magari, solo lo stesso Corto può trovare la propria etichetta:
    «Forse sono il re degli imbecilli, l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità!… Nell’eroismo…»
     
  5. olandiano

    olandiano User

  6. embriaco

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    Il Santo Graal
    Storia e leggende della reliquia più celebre della cristianità
    Cos'è il Santo Graal? Un calice? Una pietra? Un libro? Poeti, scrittori, esoteristi e registi hanno diverse teorie in proposito. In queste pagine non posso pretendere di esaurire il discorso e forse nemmeno di scalfirne il mistero, ma solo cercare di offrire al semplice curioso qualche indicazione per districarsi in un argomento così affascinante e così tanto spesso travisato.
    LA STORIA E LA LEGGENDA
    La leggenda del Sacro Graal ha inizio nell’anno 63 d.C, quandoGiuseppe d’Arimatea, discepolo di Gesù, lasciò la Terra Santa per una missione segreta. Dopo un lungo e pericoloso viaggio per mare l’imbarcazione di Giuseppe raggiunse uno stretto estuario a est dell’Inghilterra. Innanzi a lui, si ergeva la sua destinazione ultima: Glastonbury Tor, l’isola di vetro. Una volta sbarcato, Giuseppe alzò il suo bastone al cielo in segno di ringraziamento e lo affondò poi nel terreno. Con sé, aveva portato un prezioso tesoro: si trattava di una coppa contenente il sangue di Gesù Cristo, il Sacro Graal. In Inghilterra il Graal restò a lungo.
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    Per secoli la sua custodia venne tramandata ad una discendenza di guardiani. Come Giuseppe prima di loro, ciascuno era protetto dalla magica coppa. Essa spegneva la loro sete, saziava i loro appetiti, guariva le loro ferite mortali. Aveva un enorme potere di vita e di morte. Durante il regno del leggendario re Artù il Graal veniva custodito in una grande fortezza nella quale era sorvegliato da un valoroso cavaliere. Tuttavia questi tradì il suo sacro dovere per amore di una donna. E così la benedizione del Graal divenne una maledizione. Un giorno, mentre il cavaliere duellava per amore della sua signora, fu ferito di una ferita gravissima, e poiché aveva trascurato la difesa del Graal, non accennava a guarire. Tutto intorno alla fortezza che ospitava il Graal, la terra si fece arida e deserta. Ferito a morte, e tuttavia incapace di morire, il cavaliere vide spegnersi a poco a poco il suo potere. Solo pescando era in grado di dimenticare il dolore della sua condizione. E fu così che incominciarono a chiamarlo il Re Pescatore. Eppure, c’era ancora una speranza. La profezia parlava di un cavaliere innocente che un giorno avrebbe annullato la maledizione. Il cavaliere - così si diceva - avrebbe posto al re una domanda precisa, e la terra sarebbe rifiorita. Ma qual era questa domanda? Nel frattempo, in una foresta molto distante, viveva una vedova con l’unico figlio rimasto. Aveva perso il resto della famiglia in guerra, e quindi, decisa a salvare almeno il più giovane, lo aveva portato a vivere in quella zona selvaggia, lontano dal mondo degli uomini. Quel ragazzo si chiamava Parsifal. Un giorno Parsifal vide dei cavalieri nella foresta e decise di andarsene per diventare a sua volta cavaliere. Non si girò neppure mentre si allontanava, e non vide la madre cadere a terra morta. Lui le aveva spezzato il cuore. Dopo un lungo viaggio, raggiunse la sua destinazione, Camelot, il castello di re Artù. Entrando a Camelot, sentì levarsi una risata di donna e la profezia aveva detto che una risata di donna sarebbe nuovamente riecheggiata al castello solo in presenza di un uomo abbastanza valoroso da mettersi alla ricerca del Santo Graal. Era il segnale. E Parsifal era l’eletto. Ora, sarebbe stato introdotto alla nobile arte del cavalierato. E il giovane aveva molto da imparare: le astuzie in battaglia, i voti di onore e di coraggio custoditi nel codice della cavalleria, e soprattutto, il codice del silenzio. Ma un giorno Parsifal, preso dal rimorso per aver lasciato la madre, si rimise in cammino e si addentrò nella foresta. All’improvviso, si alzò una nebbia che lo fece smarrire. Fu allora che incontrò il Re Pescatore, e con esso, il suo destino. Vedendo che il giovane cavaliere s’era perso, il re gli offrì riparo per la notte al suo castello. Più tardi, mentre sedevano insieme nel grande salone, cominciò a svolgersi un misterioso rituale. Come dal nulla, apparse una processione di candele. Alla sua testa una donna portava un calice scintillante, oltre il quale apparve un magico banchetto. Con grande sorpresa di Parsifal, il Re Pescatore non si unì a lui per il banchetto. Parsifal vide che era tormentato da una gran pena, e se ne chiese il perché. Ma nonostante la curiosità, si ricordò del codice del silenzio dei cavalieri, e lo rispettò. Poi cadde in un sonno profondo. Svegliandosi il mattino seguente, Parsifal era solo, come se la notte precedente fosse stata un sogno. Il castello era deserto e il Graal era scomparso. Il giovane cavaliere aveva fallito la sua ricerca. Per arroganza, non aveva chiesto al re quale fosse la sua pena. Quella era la domanda da porre. Per anni Parsifal vagò sulla terra in cerca della sua innocenza ormai perduta. Ma invece del Graal, tutto ciò che riuscì a trovare furono gli inganni e le falsità del mondo. Infine, quando ormai le sue speranze erano quasi svanite, raggiunse la cappella di un vecchio eremita. Grazie a lui, comprese di aver peccato di orgoglio, d’aver prima spezzato il cuore di sua madre, e di non aver poi mostrato amore per le sofferenze del prossimo. Solo arrivando a questa consapevolezza, lasciando da parte il suo orgoglio terreno, egli poté riaccostarsi a Dio, rimarginare la ferita del re, allontanare la maledizione dalle sue terre, e restituire tutto il suo potere al Graal.
    Questo dice la leggenda. E da qui ha inizio la nostra ricerca
    La leggenda della coppa con il sangue di Cristo potrebbe essere vera? E se davvero esiste, dove si trova adesso il Graal? La leggenda del Graal conobbe inizialmente fama per opera di un poeta francese del XII secolo, Chrétien de Troyes. Egli scrisse di un magico calice che aveva il potere di restituire la vita. Morì, però, prima di terminare la sua opera. La leggenda quale noi oggi la conosciamo, fu scritta dai monaci Cistercensi dell’Europa medievale. Per i monaci, la leggenda era una ricerca della rettitudine, una parabola. Una volta adattata allo spirito del cristianesimo, il contenuto della leggenda originaria rimase lo stesso, fatta eccezione per un dettaglio: il Graal non era più semplicemente un calice magico: si diceva ora che fosse la coppa usata dal Cristo durante l’ultima cena. Gli archivi storici dell’Europa del XII secolo parlano di un’epoca di carestie e pestilenze. Per decenni l’intero continente fu devastato dalle epidemie e dalla siccità. I raccolti non maturavano. Migliaia di persone soffrivano per la distruzione disseminata dalla peste. Fu anche l’era delle Crociate, un’era di guerre e brutalità, nella quale gli eserciti di Europa marciavano contro i musulmani in Terra Santa. La loro missione era quella di riprendersi Gerusalemme, la nicchia più sacra per il mondo cristiano. Per i cristiani del medioevo, la leggenda del viaggio di Parsifal per terre misteriose, alla ricerca del Sacro Graal, era un esempio da imitare. Ben presto divenne una sorta di inno per gli stessi crociati, una delle giustificazioni della guerra santa.
    Ma il Graal, come la leggenda che ne parla, è più antico di quanto possa sembrare.
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    Nonostante la storia della ricerca da parte di Parsifal sia stata scritta per la prima volta nel XII secolo, gli storici concordano nel dire che abbia avuto origine oltre un millennio prima. Le sue radici affondano, infatti, nelle saghe degli eroi dell’Irlanda e della Britannia del tempo dei Celti. Ma se la leggenda è ancora più antica del cristianesimo, il Graal è la coppa di Cristo oppure un idolo pagano? Nel I secolo d.C., quando la Britannia fu invasa dall’impero romano, molte tribù celtiche fuggirono in Bretagna nel nord-ovest della Francia. Portarono con loro i racconti di una antica ricerca, preservati nella memoria dei bardi e dei cantastorie. Gli scrittori del XII secolo adattarono quegli stessi racconti al gusto delle corti francesi del medioevo. Trasformarono gli eroi celtici in cavalieri dalle scintillanti armature e la legge degli antichi guerrieri nei codici medievali del cavalierato. Così nacque la leggenda del Santo Graal. Il Graal avrebbe mostrato il suo benefico potere solo ad un cuore umile e puro.

    Ma il mistero più intrigante attende ancora di essere risolto. Dove si trova, adesso, il Sacro Graal?
    Di una cosa possiamo essere certi: Giuseppe d’Arimatea non era un mito. E secondo la leggenda, egli portò il Graal dalla Terra Santa in Inghilterra, a Glastonbury Tor. Ancora oggi, tra la popolazione locale di Glastonbury, aleggia la convinzione che in qualche luogo si celi un magico segreto. Nei pressi della collina (Tor) c’è una sorgente chiamata il "pozzo del calice". In epoca medioevale questo pozzo fu reso famoso dai monaci dell’abbazia di Glastonbury. A quel tempo, essi sostenevano che la sorgente dovesse il suo insolito colore rossastro a una fonte sacra, ovvero il sangue di Cristo che fuoriusciva dal Graal nascosto. Secondo la storia, però, i monaci di Glastonbury - come la maggior parte degli ordini religiosi dell’epoca - erano tutt’altro che benestanti, e avrebbero potuto inventare questa storia per attirare numerosi pellegrini ingenui a un’abbazia che aveva bisogno di urgenti restauri. Nel corso del XVI secolo il re Enrico VIII separò l’Inghilterra dalla Chiesa di Roma. Di conseguenza, i grandi monasteri cattolici della Britannia subirono gli attacchi della corona. Fu un’epoca di terrore e di persecuzione. I monaci di Glastonbury - si disse - fuggirono con il Graal alla volta del feudo di Nanteos Manor, nel Galles. Qui, fu loro offerto un rifugio. Il priore divenne il cappellano della famiglia, mentre i monaci lavoravano nella tenuta. Secondo una leggenda, quando morì l’ultimo monaco, il Graal fu affidato al signore del feudo e lì rimase per 400 anni. Il Graal - si diceva - era una coppa di scuro legno d’ulivo dal diametro di una quindicina di centimetri, e per tutto quel tempo, pare facesse bella mostra di sé nell’abitazione della famiglia. Molti ritengono che alla morte dell’ultimo signore del feudo, nel 1952, la coppa fu affidata ad altri e sia ora conservata in luogo segreto.
     
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  7. olandiano

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    :)
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  8. olandiano

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    Adesso embri....:)

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  9. embriaco

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    La storia d'amore più bella del mondo

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    Attenzione: potresti innamorarti!

    In amore non esiste format


    Azzurra ha diciannove anni, ha appena cominciato l’università e vive con la madre. Ragazza modello, ha sempre rigato dritto, seguendo i consigli degli adulti. Almeno finora. Ignorando tutti i pareri contrari, questa volta ha deciso di partecipare a un programma televisivo: La storia d’amore più bella del mondo. Il format prevede che un ragazzo sia corteggiato da più pretendenti e che alla fine ne scelga una da frequentare al di fuori degli studi. La prima serata in TV c’è Omar, un venticinquenne di Milano, bello e carismatico: Azzurra ne è rimasta affascinata la prima volta in cui lo ha visto. Ma le cose non vanno come si aspettava, infatti il ragazzo sembra non provare interesse per lei e apprezzare invece le altre corteggiatrici. Dopo la registrazione della puntata, però, Omar la sorprende, proponendole di trascorrere una giornata a Parigi insieme a lui. Azzurra accetta, ma proprio quando sta per lasciarsi andare, dal suo passato ricompare Tommy, il suo ex, e con lui i tradimenti e la sofferenza che ha subìto e non ancora dimenticato…

    Si può trovare l’amore in uno studio televisivo?
    Omar deve scegliere tra quattro bellissime corteggiatrici. Azzurra ha qualcosa di speciale? E lui, chi porterà sull’isola?

    I personaggi:


    OMAR
    25 anni, affascinante e alla ricerca del vero amore.

    AZZURRA
    19 anni, rincorre l’amore dopo una storia finita male.

    TOMMY
    L’ex di Azzurra. È pronto a tutto per riconquistarla.
     
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  10. olandiano

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    Avanti....:rolleyes:
     
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  11. embriaco

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    Dubai, la città costruita sul debito
    Ammirata e sognata da molti, Dubai rappresenta l'esempio di come poca speranza abbia un territorio fondato sul nulla: solo debito e cemento, ben presto il fuoco degli Emirati si spegnerà. Ma il problema di oggi è che nel mondo sorgono sempre più Dubai
    di Mauro Indelicato - 22 aprile 2015
    Per i tanti che si lasciano affascinare dall’apparenza e da quanto detto dall’informazione tradizionale, c’è una parte del mondo arabo che nel loro immaginario rappresenta una sorta di ‘nuovo paradiso’. Un modello da emulare, un esempio da seguire: il riferimento è a Dubai, città in grande espansione e sempre più in dinamico movimento; non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa, la concezione del mondo arabo è abbastanza superficiale: secondo l’opinione pubblica occidentale c’è una parte del mondo arabo da debellare ed una invece da amare. In quest’ultima categoria, rientra Dubai ma anche Abu Dhabi, Doha, Kuwait City, insomma quegli arabi che riescono ad issare nel giro di una notte grattacieli che danno a queste città un aspetto orribilmente occidentale.
    Si sa, l’uomo europeo generalmente da quando è entrato in una spaventosa ottica consumistica, non ha più una grande fantasia: tutto per essere bello, deve essere occidentale. Dunque, anche le notti d’oriente devono avere come sfondo grattacieli, cemento ed insegne luminose per essere magiche, guai ad immaginarsi una città araba con minareti, ampie moschee e canti del muezzin ad inizio giornata. Ed ecco perché Dubai si è trasformata nel sogno delle mille ed una notte 2.0; ma davvero queste città, capitali politiche od economiche di quelle petromonarchie che finanziano ISIS e gruppi armati vari da decenni, sono sinonimo di successo e rappresentano modello da seguire? Si parla di Dubai, in quanto è quella ‘City’ (triste, ma la chiamano così) che più di ogni altra cosa esprime l’ostentazione della ricchezza degli arabi del Golfo; in realtà, si potrebbe parlare anche delle altre città prima citate.
    Dubai di arabo non ha nulla, nemmeno la popolazione: solo il 20% è autoctona, per il resto la stragrande maggioranza è formata da cittadini stranieri per lo più lavoratori semi schiavizzati provenienti da India, Filippine e Palestina. Un miscuglio di gente non nata in quel territorio, una miscela di culture che fanno di Dubai non una città ma una sorta di parcheggio lussuoso in mezzo al deserto; non c’è alcun legame tra i cittadini, non ci si conosce tra vicini non per vita frenetica o per caratteri ‘nordici’, bensì perché non si parla quasi mai la stessa lingua. Una città senza storia, che fino agli anni ’70 era poco più che un modesto villaggio di pescatori più sviluppato rispetto ai vicini per via della sua posizione strategica nel golfo; poi la scoperta del petrolio, l’idea dei suoi emiri di potenziarla e renderla una metropoli competitiva non solo con l’oro nero ma con il commercio ed il turismo. Oggi è sì una grande realtà organizzata, ma è l’esempio tipico di nucleo urbano sviluppatosi senza mettere al centro l’uomo: insomma, Dubai è l’ostentazione di tutti i difetti e le mostruosità dell’odierno sistema capitalistico. Città slegate da ogni legame culturale e storico, colate di cemento ed acciaio gettate da lavoratori con salari ridicoli a favore dei pochi ricchi, un contesto che sa di artificiale e che non ‘profuma’ di nulla: non ci sono odori caratteristici a Dubai, né vie o luoghi di pregio storico, solo attrattive date dai grattacieli più alti del mondo.
    L’occhio pigro dell’occidentale, vede in Dubai soltanto dinamismo e ‘modernità’: ma in realtà di tutto questo c’è poco e nulla. Dietro le trafficate autostrade, i grandiosi grattacieli, la moderna e veloce metropolitana ed il fastoso aeroporto (unica cosa che forse sia un bene che esista, visto che garantisce molti voli abbordabili dall’Europa all’Australia grazie ad una compagnia che sponsorizza mezza Champions League), ci sta il vuoto ma nel vero senso della parola. Dietro tutto questo vi è il deserto: fisico, come in gran parte della penisola arabica, ma anche intellettuale ed economico. Dubai poggia sul debito: la città spende il 107% di quello che guadagna, soltanto i proventi del petrolio al momento riescono a colmare il gap del debito; la città si è sviluppata con un’intensa speculazione, in cui si spende e si spande ma senza un progetto a lungo termine alle spalle. Non c’è una vera pianificazione a Dubai, non c’è un obiettivo di lunga data da perseguire: finché c’è il petrolio si balla, poi si vedrà. E’ l’esempio classico allora di come un territorio possa produrre tanto fumo ma pochissimo arrosto: il ‘miracolo’ Dubai inizia a spegnersi già da adesso, con la prima bolla speculativa del 2009 che ha iniziato a far apparire molti grattacieli vuoti con spazi e locali non venduti.
    Perché evidenziare tutto questo di Dubai? Semplice: il mondo che si vuole in futuro, piegato alla volontà delle multinazionali, vuole tante Dubai in tutto il pianeta. Via retaggi culturali, via caratteristiche storiche e nazionali, si vogliono città e società fondate su debiti, speculazioni, cemento e lusso sfrenato per pochi dato grazie al lavoro di milioni di poveri. Tutto il mondo deve essere uniformato: stesse catene di fast food, stessi centro commerciali, stesse geometrie urbane contrassegnate da grattacieli e ‘shopping mall’. Quel che l’idiozia dei sultani ingozzati di petrolio sta facendo al mondo arabo, in parte sta già arrivando da noi: del resto, non è un caso se si adora Dubai con il suo cemento ed il suo acciaio e si lasci invece impunemente distruggere Mosul con i suoi musei e la sua storia millenaria; non è un caso se i mondiali si giocheranno tra i grattacieli di Doha nel 2022 mentre ad Aleppo o Damasco si lasciano solo campi di battaglia di una guerra che rischia di far disperdere il patrimonio culturale ed artistico siriano. Solo quando Dubai ed altre mostruosità politiche ed economiche del genere cesseranno di esistere mangiate dal debito e dalla fine del petrolio, forse si potrà tornare a parlare di gusto del bello e di società armoniose.
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    Ci sono luoghi in cui non vorreste tornare? Io sì: Dubai
    4 years ago11 dicembre, 2013 viachesiva
    L’ultimo giorno di ogni viaggio è sempre drammatico.
    Ti accorgi che ti mancano ancora tantissime cose da vedere, tantissime schifezze da assaggiare, tantissime esperienze da provare. Non ce la farai mai in così poco tempo.
    La verità è che non è mai abbastanza il tempo in viaggio.
    Così scegli accuratamente ben consapevole che lascerai indietro qualcosa.
    E andandotene lasci un pezzettino di cuore in ogni parte del mondo pensando “un giorno tornerò“.
    Ci ho anche scritto un post tempo fa, scrivevo così: Ma un pretesto bisogna sempre seminarselo dietro anche quando si riparte. Un ristorantino ancora da provare, un quartiere ancora da esplorare, un mercatino ancora da scoprire. Lasciando qualcosa di inesplorato, ci stiamo promettendo di ritornare.
    A me viene tutte le volte la sensazione di aver dimenticato qualcosa.
    Quasi tutte.
    Quando sono stata a Dubai no.
    Me ne sono andata pensando che ero a posto così, che ero felice di aver aggiunto un tassello nel puzzle del mondo che ho conosciuto, ma anche basta.
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    Dubai è una città di grattacieli in mezzo al deserto.
    Quando è stato creato il mondo non era previsto che delle persone vivessero lì.
    È un ambiente così ostile per l’uomo che tutta la vita si svolge al chiuso, dentro le case, gli uffici, i centri commerciali, le auto.
    Le persone si spostano solo in macchina/taxi/bus climatizzati e non ci pensano minimamente ad andare a piedi. È proprio stata concepita così: la maggior parte delle strade non ha marciapiedi, è troppo caldo per camminare.
    Le strade sono tutte superstrade e il loro unico scopo è collegare due luoghi. Le passeggiate non esistono, non vi dico le risate che si sono fatti quando abbiamo chiesto come facevamo a raggiungere un posto a piedi.
    Abbiamo camminato lungo una strada a cinque corsie sotto il sole con 40° per dieci minuti senza incontrare anima viva. Poi ci siamo rassegnati.
    E qui abbiamo scoperto che addirittura le fermate dell’autobus sono cabinotti chiusi climatizzati:
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    Da vedere non c’è niente a Dubai.
    O almeno niente che mi abbia colpito. Centri commerciali enormi, hotel e isole dalle forme più disparate (la famosa “vela” Burj al-Arab ad esempio, che però si può vedere solo da lontano), attrazioni costose e artefatte.
    L’unica cosa per cui ne è valsa veramente la pena: salire sul Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, e vedere Dubai dall’alto.
    A me in generale affascinano da morire le città dall’alto.
    Riesci a capire molto di un luogo guardandolo nella sua interezza. Stessa cosa anche per Dubai, si capisce tanto dalla cima del Burj Khalifa.
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    Il Burj Khalifa è il grattacielo più alto al mondo misurando ben 829,8 metri. Detiene un’altra decina di record assurdi tipo “la piattaforma d’osservazione esterna più alta al mondo” o “l’ascensore di servizio più alto al mondo”.
    Tu sali in cima (si può arrivare fino a poco più di 600 metri), con un ascensore che ti tappa le orecchie da quanto va veloce, e da lassù vedi uno scenario post-apocalittico.
    Grattacieli enormi che spuntano dalla sabbia, un groviglio di autostrade che collega palazzi giganteschi, architetture futuristiche e materiali all’avanguardia.
    Tutto questo circondato dal nulla. Deserto. Sabbia. Afa. Caldo.
    Vederlo dà lassù sembra la rappresentazione dell’accanimento dell’uomo che non si rassegna al volere della natura e che capriccioso si impunta, continuando a costruire.
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    Sono scesa da lì con un senso di vuoto, di desolazione e di grande tristezza. C’è chi è ispirato da questo sviluppo inarrestabile e ricchissimo in mezzo al deserto. C’è chi ci vede il futuro, chi ci vede un grande esempio per l’ottima strategia di business.
    Io ho pensato che sopravvivere grazie all’aria condizionata spostandomi da un centro commerciale all’altro a bordo di un taxi non fa per me.
    Sono a posto con Dubai io.
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  12. embriaco

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    L’usura fu concepita nel passato come un male nell’assetto sociale. Questo fenomeno si riversa tutt’oggi come fautore della crisi sistemica globale
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    Una distinzione è obbligatoria. Esiste una criminalità borghese, sotterranea, organizzata: e una criminalità di estrazione sottoproletaria, di facciata, legata ad un certo tipo di ambiente sociologico. La giustizia non deve soltanto assistere e confrontarsi con crimini come omicidi, stupri, rapine bensì ha il dovere di soffermarsi su reati che soffocano la gente comune per mezzo di truffe, comportamenti concorrenziali scorreti o usura. Quest’ultima – ovvero il prestare denaro a tassi d’interesse talmente alti, da rendere il rimborso quasi impossibile – non solo è considerata un crimine in materia giuridica o escatologica. Il comportamento dell’usuraio è stato persino condannato nei secoli dalle più autorevoli figure filosofiche e letterarie. L’albo degli interessati conta nomi come Aristotele, Dante, Shakespeare, Dostoevskij e Pound. L’usura fu sempre concepita come male irrisolto dell’assetto sociale del presente e del passato. Tanto che è definita da Aristotele come delitto contro natura e, per Dante, sommo poeta, è riassumibile nei versi: “usura offende la divina bontade”.
    Il poeta fiorentino, nel girone sovrastato dalla figura del diabolico Gerione (canto XVII), guidato negli inferi da Virgilio incontra gli usurai raggruppati tra i peccatori violenti contro Dio. Dopo essersi imbattuto in diversi bestemmiatori e sodomiti, Dante si scontra con i tanto attesi strozzini che descrive come bestie accovacciate sulla sabbia resa incandescente da una pioggia di fiamme tentando inutilmente di spegnere le fiammelle cadute. Essi avevano una sorta di sacca all’altezza del collo, una borsa con somme di denaro da prestare. I banchieri dell’epoca erano condannati alle pene dell’inferno perché non traevano il loro guadagno dall’ingegno ma dal denaro stesso: un circolo vizioso senza fine.
    Shakespeare, altro poeta interessato a questo particolare fenomeno, dedica al tema il “mercante di Venezia “, dove l’infame Shilock, ricco usuraio ebreo, ripudia il generoso mercante veneziano Antonio poiché prestava denari senza interesse. Con il passare degli anni l’usuraio si confonde con il personaggio dell’avaro, usato da molti autori tra cui Molière e Dickens, sino a giungere agli scritti di Dostoevskij che in “Delitto e castigo” impone al protagonista Raskolnikov di uccidere atrocemente una vecchia usuraia che soffocava con i suoi prestiti il quartiere. Qualche secolo dopo, allo stesso modo, al poeta statunitense Ezra Pound risultava inconcepibile che le banche creassero denaro dal nulla, con semplici operazioni contabili, per questo si affermò tra i primi nel novecento come nemico dell’usura, sostenendo che solo lo Stato potesse prestare la moneta. L’idea economica Poundiana è rintracciabile nell’opuscolo “oro e lavoro” dove nella Repubblica dell’utopia il popolo non adora la moneta come un dio e non lecca le scarpe dei borsisti, non è costretto a far guerre per il piacere degli usurai e non lavora più di cinque ore al giorno. L’ideale era quello etico di un’umanità libera dall’avidità di moneta e dalla fatica, con più tempo libero e con risorse gestite ed equamente distribuite da uno Stato Sociale.
    Analizzando in chiave economica opere o scritti che definiscono, da Aristotele a Pound, l’usura come male assoluto, sembra impossibile pensare che questo germe non sia stato ancora eliminato ma che anzi persista e si diffonda sempre di più con il passare dei secoli. L’intero globo salvo qualche eccezione rimane intrappolato in un terribile circolo vizioso. Chi ha proprietà sulla moneta, presta soldi e ne chiede di più al momento del rimborso. Il debitore, persona o Stato che sia, dovrà procurarsi in qualche modo la somma di denaro esatta, in modo tale da pagare interamente il prestito, oltre al tasso d’interesse. Quest’ultimo sarà costretto come un cane che si morde la coda, a chiedere un altro prestito ad un’altra banca, che a sua volta gli chiederà di rimborsarla ad un ammontare di denaro ben più elevato del denaro prestato. E la storia si ripete, inesorabilmente, senza fine.
     
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    Luigi Pirandello

    Tutt'e tre [​IMG]

    094

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    Edizione di riferimento
    Luigi Pirandello Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, I Meridiani vol. II, Arnoldo Mondadori editore, Milano1985
    094 – La maestrina Boccarmè

    Come, passando per un giardino e allungando distrattamente una mano, si bruca un tenero virgulto e se ne sparpagliano in aria le poche foglioline, l’unico fiore; così, passando attraverso la vita di Mirina Boccarmè, allora nel suo fiore, un uomo ne aveva fatto scempio per un vano capriccio momentaneo. Fuggita dalla città, se n’era andata in un paesello di mare del Mezzogiorno a far la maestrina.
    Erano passati ormai tant’anni.
    Appena terminata la scuola del pomeriggio, la maestrina Boccarmè soleva recarsi alla passeggiata del Molo, e là, seduta sulla spalletta della banchina, si distraeva guardando con gli altri oziosi le navi ormeggiate: tre alberi e brigantini, tartane e golette, ciascuna col suo nome a poppa: «L’Angiolina», «Colomba», «Fratelli Noghera», «Annunziatella», e il nome del porto d’iscrizione: Napoli, Castellammare di Stabia, Genova, Livorno, Amalfi: nomi, per lei che non conosceva nessuna di queste città marinare; ma che, a vederli scritti lì sulla poppa di quelle navi, diventavano ai suoi occhi cose vicine, presenti, d’un lontano ignoto che la faceva sospirare. E ora, ecco, arrivavano le paranze, una dopo l’altra, con le vele che garrivano allegre, doppiando la punta del Molo; ciascuna aveva già pronte e scelte in coperta le ceste della pesca, colme d’alga ancor viva. Tanti accorrevano allo scalo per comperare il pesce fresco per la cena; lei restava a guardar le navi, a interessarsi alla vita di bordo, per quel che ne poteva immaginare a guardarla così da fuori.
    S’era abituata al cattivo odore che esalava dal grassume di quell’acqua chiusa, sulla cui ombra vitrea, tra nave e nave, si moveva appena qualche tremulo riflesso. Godeva nel vedere i marinaj di quelle navi al sicuro, adesso, là nel porto, senza pensare che a loro forse non pareva l’ora di ritornare a qualche altro porto. E sollevando con gli occhi tutta l’anima a guardare nell’ultima luce la punta degli alti alberi, i pennoni, il sartiame, provava in sé, con una gioja ebbra di freschezza e uno sgomento quasi di vertigine, l’ansia del tanto, tanto cielo, e tanto mare che quelle navi avevano corso, partendo da chi sa quali terre lontane.
    Così fantasticando, talvolta, illusa dall’ombra che si teneva come sospesa in una lieve bruma illividita sul mare ancora chiaro, non s’accorgeva che a terra intanto, là sul Molo, s’era fatto bujo e che già tutti gli altri se n’erano andati, lasciandola sola a sentire più forte il cattivo odore dell’acqua nera sulla spiaggia, che alla calata del sole s’incrudiva.
    La lanterna verde del Molo s’era già accesa in cima alla tozza torretta bianca; ma faceva da vicino un lume così debole e vano, che pareva quasi impossibile si dovesse poi veder tanto vivo da lontano. Chi sa perché, guardandolo, la maestrina Boccarmè avvertiva una pena d’indefinito scoramento; e ritornava triste a casa.
    Spesso però, la mattina dopo, nell’alba silenziosa, mentre qualche nave con tutte le vele spiegate che non riuscivano a pigliar vento salpava lentamente dal Molo rimorchiata da un vaporino, più d’un marinajo uscito a respirare per l’ultima volta la pace del porto che lasciava, del paesello ancora addormentato, s’era portata con sé un tratto l’immagine d’una povera donnina vestita di nero che, in quell’ora insolita, dal Molo deserto aveva assistito alla triste e lenta partenza.
    Perché piaceva anche, alla maestrina Boccarmè, intenerirsi così, amaramente, allo spettacolo di quelle navi che all’alba lasciavano il porto, e s’indugiava lì a sognare con gli occhi alle vele che a mano a mano si gonfiavano al vento e si portavano via quei naviganti, lontano, sempre più lontano nella luminosa vastità del cielo e del mare, in cui a tratti gli alberi scintillavano come d’argento; finché la campana della scuola non la richiamava al dovere quotidiano.
    Quando le scuole erano chiuse per le vacanze estive, la maestrina Boccarmè non sapeva che farsi della sua libertà. Avrebbe potuto viaggiare, coi risparmii di tanti anni; le bastava sognare così, guardando le navi ormeggiate nel Molo o in partenza.
    Quell’estate, era accorsa molta gente al paesello per la stagione balneare. Una folla che non si camminava, nella passeggiata del Molo. Sfarzi di luce dei magnifici tramonti meridionali, gaj abiti di velo, ombrellini di seta, cappellini di paglia. Signorone mai viste! E le brave donnine del paese, tutte a bocca aperta e con tanto d’occhi ad ammirare. Solo la maestrina Boccarmè, niente: come se nulla fosse stato. Lì, sulla spalletta della banchina, seguitava a guardare i marinai che in qualche nave facevano il lavaggio della coperta, gettandosi allegramente l’acqua dei buglioli addosso, tra salti e corse pazze e gridi e risate.
    Se non che, un giorno:
    – Mirina!
    – Lucilla!
    – Tu qua? Sto a guardarti da mezz’ora: «è lei? non è lei?». Mirina mia, come mai?
    E quella signorona, tra lo stupore rispettoso delle brave donnine del paese, abbracciò baciò ribaciò la maestrina Boccarmè con la maggiore effusione d’affetto che la soffocante strettura del busto le permise.
    La maestrina Boccarmè, così colta all’improvviso, aprì appena appena le mani gracili e pallide a un gesto sconsolato e disse:
    – È ormai tanto tempo!
    L’angustia d’una rassegnazione, forse neanche più avvertita, le si disegnò, così dicendo, agli angoli degli occhi, appena contrasse la pelle del viso per accompagnare quel gesto delle mani con uno squallido sorriso.
    – Tu, piuttosto, come mai qui? – soggiunse, quasi volesse, stornando da sé il discorso, stornare anche dalla sua persona tanto mutata, poveramente vestita, la crudele curiosità dell’amica.
    E ci riuscì. Solo una sorpresa come quella di ritrovare dopo tant’anni e in quello stato un’antica compagna di collegio, poteva distrarre da sé per un momento la bella signora Valpieri. Richiamata ai suoi casi, non ebbe più né occhi né un pensiero per l’amica.
    – Ah, se sapessi!
    E indugiandosi in tanti inutili particolari, senza pensare che Mirina, ignorando luoghi, non conoscendo persone, non avrebbe potuto interessarsene né punto né poco, narrò la sua storia.
    Storia dolorosissima, diceva; e sarà stata. Certo i guizzi di luce delle molte gemme che le adornavano le dita toglievano efficacia ai gesti con cui voleva rappresentare le terribili ambasce per le difficoltà nelle quali il marito l’aveva lasciata.
    La maestrina Boccarmè, vedendosi guardata con considerazione dalle signore del paese per l’intimità che le dimostrava quella bella signora forestiera, voleva quasi quasi dare a credere a se stessa che realmente quell’intimità tra lei e la Valpieri ci fosse, pur ricordando bene che, nel collegio, non c’era mai stata, e che anzi lei, di umili natali ed entrata in quel collegio gratuitamente, più che per la freddezza sdegnosa delle compagne ricche aveva crudelmente sofferto per gli astii biliosi di questa Valpieri, la quale, appartenendo a una nobile famiglia decaduta, non aveva saputo tollerare in cuor suo di vedersi da quelle trattata male e messa a pari con lei.
    Ora la Valpieri parlava, parlava, senz’alcun sospetto dell’impressione che gli occhi attenti d’una povera donnina provinciale ricevevano da certe curiose scoperte sul suo viso o nei suoi modi.
    – E vedi? Quest’anno qui! – concluse. – Mi son dovuta contentare di venire per i bagni qui! Me li prescrivono i medici e non posso farne a meno. Figurati se ci sarei venuta, altrimenti! Ah che gente! Che paese, Mirina mia! Come fai a starci? E che colonia estiva! Non c’è uomini; tutte donne; tutte rispettabili madri di famiglia! Dio, Dio, mi sento mancare il fiato! Fortuna che ho trovato te! Ho preso in affitto due, non so come chiamarli, antri, tane, dove provo ribrezzo a mettere i piedi. Le annaffio tutti i giorni con l’acqua d’odore. Mi rovino. E tu che fai qui? Dove abiti? Mi fai veder la tua casa?
    – La mia casa? – fece con un sorriso impacciato la maestrina Boccarmè. – Eh, io non ne ho. La casa della scuola. Un anditino, una cameretta (si, bella ariosa) e una cucinetta, che mi ci posso appena rigirare.
    – Me la farai vedere – ripeté l’altra, come se non avesse inteso. – Ah, già! perché tu fai qua la maestra. Già! Non me lo ricordavo più. Maestra elementare, è vero?
    – Sono la direttrice, veramente. Ma insegno anche.
    – Sì? Hai tanta pazienza?
    – Bisogna averne.
    – Oh brava; dunque ne avrai un po’ anche per me. Ah, io non ti lascio più, mia cara. Sarai l’ancora di salvezza di questa povera naufraga.
    Si fermò un momento in mezzo alla via e aggiunse scotendo in aria le belle mani inanellate:
    – Naufraga davvero, sai! Su, su, non pensiamo a malinconie, adesso. Andiamo a casa tua. Quante cose ho da dirti delle nostre compagne di collegio! Ah, ne sentirai di belle! Ma avrai anche tu certamente tante cose da raccontarmi.
    – Io? – esclamò la maestrina Boccarmè. – E che vuoi che abbia da raccontarti io?
    Avvezza ormai da tant’anni a vivere tutta chiusa in sé, appena una qualche domanda accennava di volerle entrar dentro, la sviava con una risposta evasiva. Pervenuta all’edificio della scuola, disse:
    – Ecco, se vuoi entrare...
    – Ah, – fece quella, alzando il capo a guardare la tabella sul portoncino. – Stai proprio dentro la scuola?
    – Sì; e per entrare in camera mia, vedrai che si deve attraversare una classe: la IV.
    – Ah, per questa son brava ancora, forse!
    Ed entrando in quella classe, che maraviglie! Guarda! guarda! Le panche allineate, la cattedra, la lavagna, le carte geografiche alle pareti; e quel tanfo particolare della scuola! Volle sedere su una di quelle panche, e, poggiando i gomiti, con la testa tra le mani, sospirò:
    – Se sapessi che impressione mi fa!
    Varcata poi la soglia della cameretta di Mirina, altre maraviglie! Si mise a batter le mani: che nido di pace! beata solitudine! E, indicando il lettino di ferro, pulitino, con la sua brava coperta a «crocè» fatta in casa e il trasparente e la balza celeste, di mussolina rasata:
    – Chi sa che sogni vi fai! Dolci, puri!
    Ma disse che lei avrebbe pure avuto una gran paura a dormir sola in una cameretta così, con tutte quelle stanze vuote di là, delle classi.
    – Ti chiuderai a chiave, m’immagino!
    A un tratto, allungando il collo per vedere con l’ajuto dell’occhialetto un ritrattino ingiallito, appeso alla parete, e notando che l’amica, improvvisamente accesa in volto, stava ritta davanti alla scrivania come se volesse appunto nascondere quel ritratto, sorrise e la minacciò col dito furbescamente:
    – Ah, mariolina! Anche tu? Lasciamelo vedere.
    La scostò dolcemente, ma subito, intravedendo quel ritratto, cacciò un grido. La maestrina Boccarmè si voltò di scatto, impallidendo, e tutt’e due per un istante si guardarono odiosamente negli occhi.
    – Mio cugino. Lo conosci?
    – Giorgio Novi, tuo cugino?
    E la Valpieri si nascose la faccia tra le mani.
    – Lo conosci? – insistette la maestrina Boccarmè, con quell’istinto aggressivo, quasi ridicolo, delle bestioline innocue.
    Ma la Valpieri, scoprendo la faccia ora tutta alterata, senza neppur curarsi di risponderle, cominciò a smaniare, torcendosi le mani:
    – Ah Dio mio, Dio mio! È così! Di’, ne hai notizie, tu?
    – Che vuoi dire?
    – È così; senza dubbio! Ho ragione, credi, d’essere superstiziosa. Ma perché lo tieni lì, tu, quel vecchio ritratto? Lo hai amato, di’ la verità? Eh, lo vedo, poverina. Fu forse tuo fidanzato?
    – Sì, – rispose la maestrina Boccarmè, con un filo di voce.
    – E lo tieni ancora lì? – insistette crudelmente l’altra. – Ma ringrazia Dio, figliuola mia, d’essertene liberata!
    Si premette forte le tempie con le mani, strizzando gli occhi e gemendo: – Dio, Dio, Dio! Anche qui in effigie mi perseguita!
    – Ma egli ha moglie, figliuoli – disse, quasi trasecolata, la maestrina Boccarmè.
    La Valpieri la guardò con un’aria di commiserazione derisoria:
    – Già, per te, c’è la moglie. E tu glielo fai così, solitariamente, con quel ritrattino, il tradimento, ho capito! Ma io te ne parlo appunto perché c’è la moglie, e non vorrei essere incolpata domani più di quanto mi merito.
    – Tu? da chi?
    – Ma da vojaltri! Non è tuo parente? Ti prego di credere che non si è affatto rovinato per me, come vanno dicendo. È una calunnia.
    – Rovinato?
    – Ma sì, ma sì: negozi andati a male, spese pazze! Non per me, sta’ bene attenta! Io fui tratta in inganno, vigliaccamente. E ora, se egli ha commesso, come temo, qualche pazzia, guarda, me ne lavo le mani, me ne lavo le mani!
    – Ah, dunque tu?
    – Fui tratta in inganno, ti dico; e ora per giunta mi si calunnia. Viltà sopra viltà. Eppure, vedi che ti dico, gli avrei perdonato, se non mi perseguitasse da quattro mesi come un canaccio arrabbiato. Che vuole da me? Lo compatisco: è impazzito; allo sbaraglio. Ma sono rimasta anch’io Dio sa come, e proprio non posso, non posso venirgli in ajuto. Dio volesse, ci fosse qualcuno che volesse ajutar me!
    La maestrina Boccarmè si sentiva soffocare, tra lo stupore e l’angoscia che quelle notizie le cagionavano e il ribrezzo che le incuteva quella svergognata, la quale, senz’alcun ritegno, aveva osato accostarsi a lei davanti a tutti, là sul Molo, e qua, ora, penetrare nella sua intimità per insudiciarle quell’antico verecondo segreto, ch’era stato lo strazio della sua giovinezza ed era adesso, nel ricordo, il conforto e quasi l’orgoglio unico della sua vita.
    La Valpieri intanto, interpretando lo sdegno che spirava dagli occhi di lei, non per sé, ma per il Novi, rincarò la dose delle ingiurie contro l’assente, seguitando a dipingersi come una vittima. Disse che il Novi, forse, avrebbe potuto ancora salvarsi, se fosse riuscito a trovare la cauzione che bisognava versare per un modesto impiego: poco: dodici o quindici mila lire. Ma dove trovarle?
    – S’ammazzerà, me l’ha scritto! Ora puoi figurarti perché m’ha fatto tanta impressione la vista là del suo ritratto. Oh, lo dà a tutte, sai, codesto vecchio ritratto. L’ha dato anche a me. Altrimenti, non l’avrei certo riconosciuto. Non ha più capelli, puoi immaginarti! Ma pensa, pensa intanto alla sua disgraziata famiglia!
    – La famiglia? – proruppe a questo punto la maestrina Boccarmè, tutt’accesa di sdegno. – Avresti dovuto pensarci prima, mi sembra!
    – M’accusi anche tu? E non t’ho detto che egli...
    – Sì; ma dopo? Quando sapesti che aveva moglie, figliuoli?
    – Eh, troppo tardi, carina! – esclamò la Valpieri, con un gesto sguajato. – Vedo che tu ti riscaldi. Troppo tardi. Capisco che voialtri... Oh Dio, se avessi potuto sospettare che tu... È curioso che il Novi, mai una parola di te, sai? E io sono proprio venuta a cacciarmi...
    S’interruppe: guardò la maestrina Boccarmè e scoppiò in una stridula risata.
    – Vattene! – le gridò allora la maestrina, fremente, indicandole l’uscio.
    – Eh no, via, – fece la Valpieri, ricomponendosi. – Mi scacci davvero?
    – Sì! Vattene! Vattene! – ripeté la maestrina Boccarmè, pestando un piede, già con le lagrime agli occhi. – Non posso più vederti in casa mia!
    – Me ne vado, me ne vado da me, – disse la Valpieri alzandosi senza fretta. – Si calmi, si calmi, signora Direttrice!
    Prima d’infilar l’uscio si voltò e aggiunse:
    – Buoni sospiri e tanti baci al ritrattino!
    E scomparve, ripetendo la stridula risata.
    La maestrina Boccarmè, appena sola, strappò quel ritrattino dalla parete e lo scagliò con tanta rabbia sulla scrivania, che il vetro della modesta cornicetta di rame si ruppe. Poi, andò a buttarsi sul letto e, affondando il volto sul guanciale, si mise a piangere.
    Non tanto per l’onta, no; pianse per la miseria del suo cuore scoperta, derisa e quasi sfregiata; pianse per vergogna di quel che aveva fatto, di quel ritrattino che aveva appeso lì alla parete da tanti anni.
    Ma non aveva avuto mai, mai un momento di bene fin dalla fanciullezza; aveva già perduto, non pur la speranza, ma perfino il desiderio d’averne nel tempo che ancora le avanzava; e allora, quasi mendicando un ricordo di vita, era ritornata ai giorni del suo maggior tormento, ai soli giorni in cui pure, per poco, aveva sentito veramente di vivere: e aveva cercato quel ritrattino, gli aveva comperato quella cornicetta da pochi soldi, e non perché lo vedessero gli altri lo aveva appeso lì alla parete, ma per sé, per sé unicamente, quasi per far vedere a se stessa che, mentre forse tant’altre maestrine come lei dicevano senz’esser vero, d’avere avuto anch’esse in gioventù il loro romanzetto sentimentale, lei – eccolo là – lo aveva avuto davvero: c’era stato davvero – eccolo là – un uomo nella sua vita.
    Come ne aveva riso quella svergognata! Era quasi niente, sì; un povero ritrattino ingiallito; uno dei soliti romanzetti, che, appunto perché soliti, non commuovono più nessuno; come se l’esser soliti debba poi impedire di soffrirne a chi li abbia vissuti.
    Inesperienza, stupidaggine, da bambina chiusa fin dall’infanzia, prima in un orfanotrofio, poi in un collegio. Ne era uscita da pochi giorni con la patente di maestra, e stava ora nell’attesa angosciosa di un posticino nelle scuole elementari di qualche paesello, privandosi di tutto per pagar la pigione di quello sgabuzzino in città e mantenersi in quell’attesa con le poche centinaja di lire vinte in un concorso di pedagogia, nell’ultimo anno di collegio. Che provvidenza per lei quel concorso! Ma che sgomento, anche, nel vedersi così sola e libera, lei vissuta sempre nella clausura! E s’era trovata una mattina, inaspettatamente, così sola lì con un giovanotto che subito s’era messo a parlarle con la massima confidenza, dandole del voi e chiamandola «cara cuginetta». E per forza, fin dalla prima volta, aveva preteso ch’ella non stesse a quel modo col mento sul petto e non tormentasse con quelle brutte unghie da scolaretta diligente le trine della manica; su su, e che lo guardasse negli occhi, così, come guarda chi non ha nulla da temere! Per miracolo non s’era messa a piangere, quella prima volta; e con qual fervore aveva poi pregato la Madonna che non glielo facesse più rivedere. Ma era ritornato il giorno dopo con un involtino di paste e un mazzolino di fiori, per invitarla ad andare a casa sua: la madre voleva conoscere la nipotina, la figliuola della cara sorella morta da tanti anni. Era andata; e quella zia, squadrandola da capo a piedi, s’era mostrata dolente di non poterla accogliere in casa perché c’era Giorgio – e qui consigli di prudenza – una lunga predica, che ella, interpretando (com’era facile) il sospetto che moveva la zia a parlare, aveva ascoltato col volto avvampato dalla vergogna. Due giorni dopo, Giorgio era tornato a visitarla; e allora lei, tutta impacciata, balbettando, s’era sforzata di fargli intendere che non doveva più venire. Ma egli aveva accolto con un sorriso la timida preghiera, e il giorno appresso, rieccolo. Questa volta però gli aveva parlato seriamente: o smetteva, o si sarebbe recata a dirlo alla zia. Come prima della preghiera, aveva riso adesso della minaccia: «Andasse pure, anzi tanto meglio! Così avrebbe avuto il pretesto di confessare alla madre che egli la amava». Ridendo le dicono gli uomini, queste cose, che a lei in quel punto avevano cagionato tanta angoscia e acceso nel sangue tanto fuoco! Quel giorno stesso aveva cambiato alloggio, senza lasciar traccia di sé. E ricordava le ambasce nella nuova abitazione in quei quindici giorni che passarono prima che egli la scoprisse; l’incerto timore, forse più di se stessa che di lui, se il non doverlo più rivedere le rendeva spinosa di tante smanie la solitudine. Non sapeva più vedersi in quella nuova cameretta, pur tanto più decente della prima; si recava ogni giorno al collegio a trovare la direttrice che le aveva promesso per il prossimo autunno il posticino. E una sera, appena rientrata, aveva sentito picchiare alla porta e una voce affannata che la scongiurava d’aprire. Quanto, quanto tempo non lo aveva tenuto lì, dietro la porta, tremando di qua e scongiurandolo a sua volta d’andarsene, di lasciarla in pace, di parlar piano per carità, che i vicini non udissero: era una pazzia un’infamia, comprometterla a quel modo; via, via! che voleva da lei?
    A un tratto, poiché egli non smetteva d’insistere e non se ne sarebbe andato, una risoluzione: s’era rimesso il cappellino, aveva aperto la porta: – Eccomi! Usciamo insieme. Vieni, vieni –. E qui tutti i ricordi s accendevano; il cuore già intirizzito s’infocava ancora alla fiamma di quella sera, che tante lagrime versate poi non eran bastate a spegnere. Proprio tra le fiamme le era parso di camminare; sola con lui, a braccetto con lui, per le vie della città. E in mezzo al tramenio, al fragore di quelle vie, distinte le parole ch’egli le sussurrava all’orecchio, premendole il braccio col braccio. Già la chiamava sposina; e così sempre, a braccetto, sarebbero andati nella vita. Bisognava ora vincere l’opposizione della madre.
    Ritornando verso casa, già tardi, gli aveva strappato la promessa, anzi il giuramento, che la avrebbe accompagnata soltanto fino alla porta; ma il giuramento era a prezzo d’un bacio. No! e come mai? per istrada? Ma egli disse che non aveva inteso fino all’uscio di strada, ma su, fino in cima alla scala: lì il bacio; e poi, sì, l’avrebbe lasciata prima che lei aprisse la porta: lo aveva giurato. Se non che, dopo il primo bacio, mentre già sola nella cameretta, stordita e tremante di felicità, tentava di spuntarsi il cappellino, ecco di nuovo, attraverso la porta, pian piano, la voce di lui che gliene chiedeva un altro, un altro solo, un altro solo e poi basta: se ne sarebbe andato davvero. E lei, vinta alla fine, dopo aver detto tante volte di no, di no, vinta e costretta dall’imprudenza, dalla petulanza di lui, aveva riaperto la porta.
    Fin qui aveva sempre ricordato la maestrina Boccarmè: tutto il bene.
    Come precipitando dalla sommità d’una montagna un torrente trascina con sé le pietre che poi nei mesi asciutti ne segnano il corso, così lei, precipitando dalla sua felicità, ora che negli occhi le lagrime le si erano inaridite, andava da venti anni sui sassi della via che il precipizio le aveva segnata; andava, e i piedi più non le dolevano; andava, e gli occhi stanchi della grigia aridità del greto s’erano rivolti a contemplare la sommità da cui era caduta. Il cordoglio s’era sciolto, la disperazione s’era composta in un intenso muto rimpianto del bene perduto; e questo rimpianto a poco a poco, nella squallida desolazione, era divenuto un bene per se stesso, l’unico bene.
    Dopo quella notte, egli era scomparso; ella lo aveva atteso parecchi giorni; poi s’era recata dalla madre di lui, la quale, senza volere intendere tutto il male che il figlio aveva fatto, se l’era tenuta qualche tempo con sé; venuta la nomina di maestra la aveva avviata al suo destino.
    Vent’anni! Quante navi aveva veduto arrivare nel vecchio molo di quel paesello; quante ne aveva vedute ripartire!
    Vestita sempre di nero, dolce, paziente e affettuosa con le bambine della scuola, non solo per il ricordo di quanto aveva sofferto a causa della durezza di certe insegnanti, ma anche perché, femminucce, le considerava destinate più a soffrire che a godere; con quella combinazione della casa nella stessa scuola, se n’era vissuta appartata da tutti, compensandosi in segreto, con l’immaginazione e con le letture, di tutte le angustie e le mortificazioni che la timidezza le aveva fatto patire. E a poco a poco aveva preso gusto sempre più a un certo amaro senso della vita che la inteneriva fino alle lagrime talvolta per cose da nulla: se una farfalletta, per esempio, le entrava in camera, di sera, mentre stava a correggere i compiti di scuola, e, dopo aver girato un pezzo attorno al lume, veniva là, sul tavolinetto sotto la finestra, davanti al quale lei stava seduta, a posarlesi lieve lieve sulla mano, come se la notte gliel’avesse mandata per darle un po’ di compagnia.
    Tra poco avrebbe avuto quarant’anni; e forse sì, il viso le si era un po’ sciupato; ma l’anima no; per questo bisogno che aveva di fantasticare in silenzio, di vedere come avvolta nel lontano azzurro d’una favola, lei piccola piccola, tra tutto quel cielo e quel mare, la propria vita.
    Guai se non lo avesse sentito più questo bisogno! Tutte le cose, dentro e attorno, avrebbero perduto ogni senso per lei e ogni valore; e meglio morire allora!
    S’alzò dal letto. S’era tutta spettinata, e aveva gli occhi rossi e gonfi dal pianto. S’appressò all’unico specchio della cameretta, lì in un angolo, a bilico nel modestissimo lavabo di ferro smaltato. Si lavò gli occhi, che le bruciavano: prese il pettine per rifarsi i capelli.
    Negli anni del collegio, per modestia, ma anche perché le compagne ricche non dicessero che volesse darsi arie da «signorina» per far dimenticare d’esservi stata accolta per carità, aveva tenuto sempre i capelli come all’orfanotrofio, tutti tirati indietro, lisci lisci, senza un nastro, senza un fiocco e annodati stretti alla nuca. E così la aveva vista lui, la prima volta, appena usata di collegio; e che beffe! come per «le brutte unghie da scolaretta diligente». Gliel’aveva poi insegnata lui quella pettinatura che, dopo tant’anni, ella usava ancora; una pettinatura un po’ goffa, passata da tanto tempo di moda.
    Si sciolse i capelli, senza toccare la scriminatura in mezzo, e lasciò cader le due bande in cui li teneva divisi; prese per la punta prima l’una e poi l’altra banda e con lievi colpettini di pettine in su cominciò ad aggrovigliolarsele per modo che ai due lati della fronte, sulle tempie e fin sugli orecchi, le si gonfiassero boffici e ricce. Sì: così pettinati, i suoi capelli parevano tanti; certo però le incorniciavano male il viso smagrito, già un po’ troppo affossato nelle guance; ma così erano piaciuti a lui, e non avrebbe saputo pettinarseli altrimenti.
    Con quegli occhi ancora gonfi dal pianto e senza quel brio di luce che spesso glieli rendeva arguti e vivaci, si vide come finora non s’era veduta mai; con un infinito avvilimento di pena per quell’immagine con cui per tanto tempo s’era ostinata a rappresentarsi a se stessa. S’accorse che per gli altri non era, non poteva più essere così. E come, allora? Si smarrì; e nuove lagrime, più brucianti delle prime, le sgorgarono dagli occhi. No! no! Doveva essere ancora così! Ancora, passando per le viuzze alte del paesello, popolate d’innumerevoli bambini strillanti, nudi o con la sola camicina sudicia e sbrendolata addosso, ancora voleva esser guardata con amorosa ammirazione da tutte quelle umili mamme delle sue scolarette, che sedevano lì davanti alle porte delle loro casupole e la invitavano, cedendo subito la seggiola, a sedere un po’ con loro.
    – Oh, guarda! La signora Direttrice!
    – Venga qua! Segga qua, signora Direttrice!
    Volevano sapere come facesse a incantare le loro bambine con certi discorsi ch’esse non sapevano riferire, ma che dovevano esser belli, sulle api, sulle formichette, sui fiori: cose che non parevano vere. E lei, a quelle loro maraviglie, sorrideva e rispondeva che lei stessa non avrebbe più saputo ripetere ciò che aveva potuto dire in iscuola per un caso imprevisto, d’un’ape entrata in classe, d’un geranio che improvvisamente s’era acceso nel sole sul davanzale della finestra.
    Povera lì, tra povere, aveva in sé questa ricchezza che godeva di darsi alle care animucce delle sue scolarette («figlioline mie» come le chiamava); questa facoltà di commuoversi di tutto, di riconoscere in un sentimento suo, vivo, la gioja d’una fogliolina nuova che si moveva all’aria la prima volta, la tristezza della sua cucinetta quando, dopo cena, s’era spenta, e a veder lo squallore della cenere rimasta nei fornelli, ogni sera le sembrava che si fosse spenta per sempre; quel senso di nuovo, per cui, se un uccellino cantava, sapeva sì che quell’uccellino ripeteva il verso di tutti gli altri della sua famiglia, ma sentiva ch’esso era uno, lui, di cui udiva il verso per la prima volta, formato lì, ora, su quella fronda d’albero o su quella gronda di tetto, per una cosa d’ora, nuova nella vita di quell’uccellino.
    S’era salvata così dalla disperazione.
    E ancora, purtroppo, allorché i suoi doveri di maestra erano compiuti, e finite per la giornata le altre cose da fare, se per un momento la stanchezza la vinceva e vedeva d’un tratto precipitar nel vuoto la sua vita, ancora non era riuscita a liberarsi da certe torbide smanie che l’assalivano e le oscuravano lo spirito; ed erano pensieri cattivi, e sogni anche più cattivi, la notte. Aver potuto scoprire in sé, nei silenzii infiniti della sua anima, un brulichio così vivo di sentimenti, non come una ricchezza propriamente sua, ma del mondo come ella lo avrebbe dato a godere a una creaturina sua; ed esser rimasta nell’angoscia di quella solitudine, così staccata per sempre da ogni vita!
    S’accorse che s’era fatto bujo nella cameretta e si recò ad accendere il lumetto bianco a petrolio sulla scrivania. Vide il ritrattino scagliato lì sopra con tanta rabbia, e le parve che non lei col suo atto violento avesse rotto il vetro della cornicetta, ma la stridula risata di quella donnaccia. Sentì che non poteva ora raccattare quel ritrattino e che non avrebbe potuto più riappenderlo alla parete, se prima non risarciva in qualche modo la sua anima dal morso velenoso di quella vipera, dallo sfregio vile di quella risata. Perché lei non era come una che, pur d’ottenere qualcosa, si riceva ingiurie e offese e provi anzi più vivo nell’umiliazione il godimento della cosa ottenuta. Lei non voleva ottener nulla; lei era nata per dare.
    Fissò gli occhi, improvvisamente accesi, e stette un po’ come in ascolto. Bisognavano a lui dodici o quindici mila lire, da versare a cauzione d’un modesto impiego: glielo aveva detto colei. Un brivido alla schiena. Raccolse le mani e, figgendosi la punta delle dita tra gli occhi e le sopracciglia, stette un pezzo così. Poi, sedendo in fretta davanti alla scrivania, cavò di tasca la chiave del cassetto; lo aprì, ne trasse il suo vecchio libretto della Cassa di Risparmio per vedere esattamente quanto avesse messo da parte in tanti anni per la sua vecchiaja, pur sapendo bene che non ammontava a quella cifra. Erano difatti poco più di dieci mila lire. Ma a potere intanto disporre di quelle dieci...
    Provò subito il bisogno di dire a se stessa che non lo faceva per lui, per averne in ricambio qualche cosa. Non voleva niente, lei, più niente: non che la gratitudine di lui, ma neppure il ricordo: niente! E pensò dapprima di mandar quel denaro senza fargli sapere che glielo mandava lei. Ma poi per fortuna rifletté che con la presenza di quell’altra in paese, lui, certo ormai senza più memoria di lei, avrebbe potuto supporre che il soccorso gli veniva da quella, a prezzo di chi sa quale vergogna.
    No, no: ad evitare che cadesse in un così sciagurato equivoco, bisognava purtroppo ch’ella gli scrivesse e gli dicesse che appunto per la presenza della Valpieri nel paese aveva potuto sapere del bisogno di lui; e che gli mandava quel denaro perché lei non avrebbe saputo che farsene, prima di tutto, e poi perché le era caro far rivivere così in sé, per sé sola, il ricordo – non di lui, non di lui! – ma di tutto il male e di tutto il bene che le era venuto un giorno da lui. Così, ecco. Era la verità.
    E così, richiamato a questo prezzo dal tempo lontano che lo aveva ingiallito, ravvivato dal sangue di questa nuova ferita, ella avrebbe potuto ora riappendere alla parete il vecchio ritrattino; per sé, unicamente per sé, per sentire ancora, dentro di sé, più che mai soffuso dell’antica malinconia, il lontano azzurro della sua povera favola segreta, e poter seguitare a guardare con lo stesso animo quel cielo, quel mare, le navi che arrivavano nel vecchio Molo o ne ripartivano all’alba, lente, nel luminoso tremolio di quelle acque distese fino a perdita d’occhio.
    Sì, ma se non era l’antico amore a farle da fermento dal più profondo dell’anima, perché ora quella specie d’ebbrezza che le gonfiava il petto, e quello struggimento che voleva traboccarle in nuove lagrime; non più brucianti, queste?
    Per fortuna lo specchio era là nell’angolo, e la maestrina Boccarmè non vide come s’appuntiva sgraziatamente sulla sua povera bocca appassita quel vezzo che sogliono fare i bambini prima che si buttino a piangere; e il mento, come le tremava.
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  15. embriaco

    embriaco User

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    « Bonvi era un fumettista rock. O meglio, una rock-star del fumetto.
    E le Sturmtruppen sono state la sua Opera rock.
    Per la sua capacità straordinaria di aver creato un linguaggio nuovo e universale...
    E il linguaggio crea l’identità, la strada per entrare nell’immaginario di tutti, senza limiti di età, estrazione sociale, cultura.
    Proprio come il rock ».
    VASCO ROSSI
    (rock - star)
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    STURMTRUPPEN


    SI NARRA CHE LA PRIMA STRIP DELLE STURMTRUPPEN SIA
    STATA DISEGNATA SULLA TOVAGLIA DI UN’OSTERIA DI MODENA
    NELLA NOTTE TRA IL 2 E 3 OTTOBRE DEL FATALE 1968.
    UN MESE DOPO LE STRISCE STURMTRUPPEN
    VENGONO PRESENTATE AL IV SALONE
    DEL FUMETTO DI LUCCA E VINCONO IL CONCORSO
    INDETTO DAL QUOTIDIANO PAESE SERA.

    Da quella prima apparizione il pazzo esercito delle Sturmtruppen,
    satira antimilitare per eccellenza che ha per oggetto un plotone di soldati
    tedeschi che parlano un improbabile “tedeschese”, si diffonde velocemente
    in numerose pubblicazioni, estendendosi con rapidità anche oltre i
    confini italiani. Le vicende dell’esercito bonviano vengono tradotte in
    UNDICI lingue - Tedesco, Inglese, Francese, Finlandese, Portoghese,
    Danese, Norvegese, Spagnolo, Svedese, Olandese e RUSSO! - e pubblicate
    dalle più prestigiose case editrici di Europa. Risulta essere il primo fumetto
    straniero pubblicato in URSS prima del crollo dell’ Unione Sovietica;
    viene diffuso in Francia da Sagèdition e da JC Lattès negli anni
    Settanta e negli anni Novanta appare per la prima volta nel
    periodico “the European” per i paesi di lingua Anglofona.
    Dal 1974 al 2004 le Sturmtruppen sono state pubblicate in Germania dalla
    Della Condor Beta Verlag, probabilmente l’edizione più seguita e la
    più aggiornata con oltre seimila strisce pubblicate, mentre in Spagna
    la Nuevas Fronteras del Arte di Madrid ha recentemente pubblicato
    alcuni volumi in Lingua Spagnola.
    Al passaporto non mancano i paesiscandinavi e quelli di lingua portoghese.
    Le pubblicazioni più recenti in Italia sono state per Magazzini Salani.
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    I PERSONAGGI


    I SOLDATI DELLE STURMTRUPPEN PRESENTANO,
    IN MODO GROTTESCO, DIVERSE SFACCETTATURE
    DELL' ANIMO UMANO.

    Uno sgangherato esercito che parla in un idioma "tedeschese",
    composto da soldati spesso senza nome che popolano un mondo
    assurdo impegnato in una guerra senza fine, contro un nemico
    che non si vede mai.
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      UFFIZIALEN SUPERIOREN
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      SOLDATEN SEMPLICEN: OTTO
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      CAPITANEN CON TENDEZEN PARTICOLARI
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      SOTTOTENENTEN DI KOMPLEMENTEN
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      SERGENTEN
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      IL FIERO ALLEATEN GALEAZZO MUSOLESI
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      CUOKEN
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      PICCOLA FEDETTA PRUSSIANA
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      TRUPPE REGOLARI
    • - 003 -

      DICONO DELLE
      STURMTRUPPEN

      «Bonvi riusciva a spiazzarti sempre. E questo non solo nella vita ma anche nel
      suo lavoro. Pensiamo solo a Sturmtruppen. La situazione più tragica e melmosa
      che si possa immaginare, quella della guerra in trincea, volta in ridere. La figura
      del soldato tedesco, ovvero quanto di più lontano dal comune sentire italiano,
      che nella sua sfiga ontologica ci diviene fin simpatica. E – questo è il bello –
      sempre un velo di imbarazzo nel lettore, perché ci si sente quasi fuori posto a
      ridere sgangheratamente di quei poveri “crucchi”, razzisticamente della loro
      parlata tutta spigoli,
      sadicamente delle loro maleodoranti disgrazie.
      Eppure, sensi di colpa compresi, si sghignazza.
      Diavolo d’un Bonvi, “politically uncorrect” ».
      FERRUCCIO GERONIMI
      (giornalista)

      «Le Sturmtruppen arrivarono del tutto inattese in un mondo che stava
      scoprendo, finalmente e con vent’anni di ritardo, che i fumetti, le strisce le
      potevano leggere anche coloro che avevano compiuto i diciotto anni.
      Le Sturmtruppen piacevano in modo trasversale, a destra e a sinistra.
      Non erano una questione ideologica, era un fatto biologico».
      MARCO GUIDI
      (giornalista)

      «La striscia delle Sturmtruppen, affettuosamente Sturm, è senza ombra di
      dubbio una delle più singolari che siano mai state create da un artista italiano. E’
      un lavoro che Bonvi ha intessuto con furbizia e genialità componendo man
      mano un mosaico di situazioni che vanno al di là della scenografia rappresentata
      e che coinvolgono tutta la società nelle sue forme di degenerazione e degradazione,
      mettendo a nudo i risvolti più ipocriti».
      LUCIANO SECCHI
      (in arte Max Bunker, autore)
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  16. olandiano

    olandiano User

  17. embriaco

    embriaco User

    Settant'anni da Hiroshima e Nagasaki: perché il Giappone non fa i conti con la storia

    A sette decenni dall'atomica, Tokio continua a celebrare insieme vittime innocenti e criminali di guerra. Senza risolvere i molti contenziosi aperti con gli stati vicini

    di Pio d'Emilia
    05 agosto 2015
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    «Personalmente non ci troverei nulla di male, anzi, risolverebbe davvero il problema: ma non è possibile. L’abbiamo studiato e ristudiato, analizzato sotto tutti i punti di vista. E la conclusione è sempre la stessa: non puoi raccogliere del liquido e rimetterlo in una tazza, dopo averlo sparso per terra. Le loro anime ormai si sono fuse con tutte le altre. E debbono restare qui, assieme a tutte le altre, 2.466.721 (le vittime giapponesi della seconda guerra mondiale, n.d.r.), per la precisione. Le ultime sono arrivate lo scorso ottobre.» Yoshihisa è un giovane shintoista. Non ha intenzione di diventare sacerdote, è uno studente di scienze politiche ed è qui «per studiare» e soprattutto, per «capire»

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      La sequenza dello scoppio della bomba
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      Vista aerea delle rovine dopo l'esplosione
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      "Little Boy" la bomba sganciata su Hiroshima
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      La città di Hiroshima distrutta
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      Hiroshima, dopo il bombardamento atomico
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      Sopravvissuti alla bomba nucleare del 1945
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      Una sopravvissuta presenta i segni della bruciatura dell'esplosione con la trama del kimono
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      Briefing prima della missione
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      Il Colonnello Paul Tibbets davanti al suo B-29 'Enola Gay' a Tinian Field nelle isole Marianas
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      I piloti della misssione che sganciò la bomba nucleare su Hiroshima
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      La fortezza volante B29 'Enola Gay' che sganciò la bomba
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      Vista aerea delle rovine dopo l'esplosione
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      Cadaveri dopo l'esplosione
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      Memoriale della pace di Hiroshima

    "Little Boy" la bomba sganciata su Hiroshima

    A 70 dalla fine della guerra e dalle prime bombe atomiche (6 agosto su Hiroshima, 9 agosto su Nagasaki, circa 200 mila morti diretti, 150 mila sopravvissuti conducono ancora oggi una vita d’inferno a causa delle conseguenze delle radiazioni) è curioso che il dibattito nazionale non affronti una volta per tutte il tema della sconfitta, della liberazione/occupazione, delle responsabilità e della verità storica, e continui invece a concentrarsi sui temi esoterici come quello della sorte che debbano avere le anime di alcuni criminali di guerra. E' come se in Italia i giornali aprissero, ogni giorno, con una foto di chi va a visitare la tomba di Mussolini. Il giovane diacono innaffia i fiori del giardino con gesti lenti, come stesse officiando una delle tante liturgie del luogo. Uno dei più sacri, e sicuramente il più controverso, del Giappone. Lo Yasukuni Jinja, il tempio della Pace. Ma anche della Discordia.
    ..


    È qui, più che a Nagatacho - il quartiere della politica - che il vecchio ed il nuovo Giappone non riescono ancora a riconciliarsi, ed è qui che politici idioti, più che patrioti, attori e personalità varie in cerca di pubblicità, vengono ogni anno, in questo periodo, per onorare i caduti per la patria.

    Criminali di guerra compresi: nell’autunno del 1978, un po’ alla chetichella (pare che l’Imperatore, che non era stato informato, la prese molto male, e da allora né lui né la sua famiglia hanno più visitato il tempio) l’allora Gran Sacerdote Matsudaira Nagayoshi radunò alcune (non tutte, qualcuna si rifiutò) famiglie degli ex criminali di guerra e le invitò, nottetempo, al tempio. Nel giro di pochi minuti, dopo una cerimonia di apoteosi, le anime in pena di 14 dei 25 criminali di guerra giustiziati dal Tribunale di Tokyo o morti in carcere, ormai trasformate in kami (divinità) trovavano finalmente pace e sollievo nel boschetto che circonda lo Yasukuni.

    Adesso però questa “presenza” è diventata imbarazzante, e qualcuno, anche nell’attuale governo, le vorrebbe spostare dal Tempio della Discordia. «Impossibile», spiega Yoshihisa, «individualmente, non esistono più. Parliamo di anime, di spiriti. Che tutti insieme, in un aldilà che è molto più aldiqua di quanto possiate immaginare voi occidentali, proteggono il Giappone». E guarda verso il boschetto, con gli alberi gravidi di foglietti bianchi, gli ex voto shintoisti.

    La festa delle anime

    Questo è il Giappone, dunque, 70 anni dopo. Alla vigilia del Mitama Matsuri, la “festa delle anime” lo Yasukuni Jinja, è tutto un viavai di banchetti, lanterne, yatai (venditori ambulanti) turisti (soprattutto cinesi) e gruppuscoli vari che si apprestano a protestare nell’assoluto rispetto delle ferree regole imposte dalla polizia. Alcuni, in tenuta militare, dicono e minacciano cose orrende, preoccupando un po’ i turisti americani, ma è folclore. Alcuni, i più rumorosi, sono pagati, altri sono poveri disperati, altri ancora epigoni di una sinistra che da tempo ha perso la bussola e vaga a vuoto.

    C’è di tutto: dagli anarchici ai cristiani fondamentalisti, ai sendakaa-zoku, i fascistelli a ore pagati per far casino, rumorosi quanto innocui, ma anche gente seria come i reduci appartenenti alla Eirei ni kotaeru kai” (“associazione per il rispetto delle anime”) o quelli della Tokko Zaidan, l’associazione degli ex kamikaze, in rotta col governo perchè a differenza dei reduci dal fronte (che appratengono ad un’altra e più potente associazione, la Izokukai) non ricevono alcuna pensione. «Un vero scandalo», spiega Hisashi Tezuka, 93 anni, che il 15 agosto 1945, era pronto a schiantarsi col suo aereo ma venne fermato dal discorso di “resa” dell’Imperratore (si fa per dire: nel suo lungo e contorto discorso Hirohito non pronunciò mai questa parola), «pensi che invece i criminali di guerra, e le loro famiglie, ricevono lauti vitalizi».

    Cosa ne pensa, il kamikaze mancato, della questione delle anime nere? È giusto o meno che vengano custodite assieme ai veri eroi, e ai milioni di vittime provocate da una guerra folle? Si infervora: «No che che non dovrebbero starci. È una vergogna. Questa è gente che mandava a morire i poveracci senza pensarci un attimo. Carne da macello eravamo. Poi, dopo la guerra, un bel voltafaccia ed eccoli di nuovo al potere. E pensare che ero pronto a dare la vita, per la patria». Volontario come tutti i kamikaze? «Fino ad un certo punto. Facevano passare un foglio, avevi tre opzioni, aderisco con entusiamo, aderisco o non aderisco. I pochi che sceglievano l’ultima opzione venivano acchiappati e sottoposti ad una lunga predica. Alla fine diventavano entusiasti. Io non sbarrai alcuna casella, ne aggiunsi una: doverosa adesione. Ero un soldato ma non morivo certo dalla voglia di morire».

    La finta Norimberga

    Non è ancora chiaro se a convincere Hirohito – che il 26 luglio aveva sdegnosamente rifiutato la dichiarazione di Potsdam in cui gli si imponevano le stesse condizioni da lui poi accettate il 15 agosto 1945 – siano state le due bombe atomiche (di cui all’epoca non si era ancora ben capito l’enorme impatto sulle successive generazioni, e che avevano provocato meno morti degli incessanti raid aerei su Tokyo) o i carri armati di Stalin che stavano per invadere il nord del Paese. Ma è certo che sia lui che tutti i suoi collaboratori più stretti preferivano mettersi nelle mani degli americani che vedere il Paese diviso in nord e sud, come successe pochi anni dopo alla Corea.

    E gli Usa non persero tempo. Risparmiando,contro il parere di tutti gli alleati Stalin e Churchill soprattutto, l’Imperatore e organizzando un processo sul modello di Norimberga viziato proprio dalla mancata incriminazione di Hirohito e dalle testimonianze “concordate” preventivamente, in modo che in aula a nessuno saltasse in mente di cambiare il copione e coinvolgere l’Imperatore, gli Stati Uniti trasformarono in pochi anni il nemico più feroce in alleato fedele, riesumando e foraggiando la classe politica (oggi tra le più mediocri e corrotte del mondo industrializzato) che aveva provocato la guerra.

    Più di metà dell’attuale parlamento è formato da zokusejika: superstiti, discendenti, diretti o indiretti di un “parterre” politico che non ha mai avuto la la capacità di rinnovarsi (lo stesso premier Abe è nipote di Nobosuke Kishi, un criminale di guerra graziato, riabilitato dagli Usa e divenuto addirittura premier negli anni ‘60). E questo a differenza, e scapito, di artisti, scrittori, registi, intellettuali e imprenditori che assieme alla stragrande maggioranza della popolazione, viaggiano su binari decisamente separati e vorrebbero un Giappone meglio governato.

    Il prezzo che questo Paese e suoi cittadini, tra i più colti, onesti e laboriosi del mondo, continua a pagare per colpa dei suoi politici incapaci, arroganti e corrotti è enorme. E anche se la situazione non dovesse precipitare – come molti temono e qualcuno addirittura auspica – in un nuovo, più o meno limitato conflitto, sta allontanando i cittadini dalla politica: alle ultime elezioni ha votato meno del 50 per cento. Se si votasse oggi, il tasso sarebbe ancor più basso.

    «Questa vicenda ci rende ostaggio della Cina e della Corea, che la tirano fuori ogni volta che fa loro comodo», spiega Taro Yamamoto, giovane senatore indipendente che l’anno scorso sollevò un polverone per avere avuto il coraggio di consegnare all’Imperatore una lettera personale nella quale lo sollecitava a far qualcosa per i “rifugiati nucleari” di Fukushima, di cui tutti si sono dimenticati, «ma imbarazza anche la stragrande maggioranza dei giapponesi. Che nulla vuole avere a che fare con vecchi e nuovi nazionalismi, revanscismi e fanatismi vari». Persino Abe ha confessato ai suoi fedelissimi che sarebbe d’accordo nello spostare in un luogo diverso le anime dei defunti imbarazzanti. Un posto si sarebbe anche già individuato, da tempo: a Chidorigafuji, poco distante dal Tempio Yasukuni, sulle rive del fossato che circonda il Palazzo Imperiale, proprio difronte al nostro Istituto di Cultura. Ma vecchi e nuovi emissari del Palazzo continuano a scontrarsi contro l’intransigenza dei custodi del tempio.

    L'onore ai carnefici

    Strano paese il Giappone. Dove premier, ministri e attori in cerca di pubblicità (ma non l’Imperatore né i membri della sua famiglia) vanno ancora, regolarmente, ad omaggiare - tirandosi dietro gli anatemi dei Paesi vicini - gente che ha mandato a morire milioni di loro cittadini e seminato orrore e distruzione in Asia, mentre i cittadini, compresi i poveri reduci, non hanno un luogo tranquillo dove ricordare i loro morti. In tutto il Giappone non esiste infatti l’equivalente di Arlington, dove gli americani onorano i loro caduti, o del Milite Ignoto, monumento che molti Paesi, compresa l’Italia, hanno dedicato alla memoria dei veri eroi, i poveracci caduti al fronte. È come se il 25 aprile, giorno della liberazione, o il 2 giugno, festa della Repubblica, la nostre autorità andassero a depositare le corone di alloro davanti al Milite Ignoto, sapendo che contiene anche le spoglie di Mussolini e dei maggiori gerarchi fascisti.

    «È una situazione insostenibile», afferma Ukeru Magosaki, ex ambasciatore del Giappone in Iran e altri Paesi “caldi”, dimessosi di recente e autore di un saggio esplosivo,“Il suicidio politico del Giappone”. «Stiamo pagando il prezzo di una totale sudditanza, nel dopoguerra, agli Stati Uniti che, se ci ha consentito per molti anni di risparmiare sulla difesa puntando solo sull’economia, oggi ci impedisce di rivendicare un ruolo politico non solo in Asia, ma nel mondo intero. Non è certo con le leggi e i decreti che si conquista credibilità e rispetto. Ma con i comportamenti. Quando la Germania ha mandato le sue truppe in Kosovo, per la prima volta dal dopoguerra, nessuno si è opposto perchè nessuno poteva imputare, a Shroeder o alla Merkel, simpatie per il regime nazista. Fino a quando il nostro governo non riuscirà a convincere i Paesi vicini che il passato è passato, il Giappone continuerà ad essere visto con sospetto, se non aperta ostilità».
     
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  18. topgun123

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  19. embriaco

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    BLEK MACIGNO - IL GRANDE BLEK


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    itolo originale: Blek Macigno
    Personaggi:
    Blek Macigno, Roddy Lassiter, Professor Occultis, Avvocato Connoly, Soshima-Taka, Il capitano Sanders, Il pastore Smith, Frate Calvario, I Figli del Dragone Nero, Tilly Fremont, I compagni della "Freccia Nera", Nessie, Il Bisonte bianco, Giubbe rosse
    Autore: EsseGesse ( Pietro Sartoris, Dario Guzzon, Giovanni Sinchetto)Editori: Editoriale Dardo
    Nazione
    : Italia
    Anno
    : 1953Genere: Fumetto westernEtà consigliata: Ragazzi dai 6 ai 12 anni
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    Dopo il successo di Capitan Miki, nel 1954 il trio torinese della Esse G Esse (Sinchetto, Guzzon e Sartoris) diedero inizio alla saga del "Grande Blek", personaggio conosciuto anche con il nome di "Blek Macigno". Così come per il comandante Mark , le avventure di Blek Macigno sono ambientate durante gli anni della rivoluzione d'indipendenza americana, quando molti trappers si battevano contro le giubbe rosse inglesi di re Giorgio III. Fra questi compare il biondo e muscoloso Blek Macigno, un uomo dalla forza erculea, che risolve le situazioni a suon di pugni e di pesanti schiaffoni nei confronti dei malcapitati soldati inglesi
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    , che lui chiama scherzosamente "gamberi rossi", per via del colore della loro uniforme.I fumetti di Blek Macigno riscossero un notevole successo sopratutto negli anni '60, per via delle loro trame leggere e godibili. A dare un tocco di comicità alle storie ci pensano i due inseparabili amici di Blek Macigno: il panciuto ed eccentrico professor Occultis, sempre pronto a studiare dei piani al fine di ingannare gli inglesi e il piccolo Roddy, un giovane trapper che allo studio e alle noiose lezioni del professore, preferisce dare una mano a Blek e ai suoi amici. Blek Macigno è caratterizato da un capello di marmotta, un gilè di pelliccia che copre il torace e un paio di pantaloni rossi. Combatte principalmente a mani nude, ma per sparare usa solitamente il classico fucile "Kentucky", usato dai cacciatori americani di quell'epoca. Nelle sue avventure Blek Macigno non si è scontrato soltanto con gli inglesi, ma anche contro i pirati, gli indiani bellicosi, i ladri e i malfattori della peggior specie. Grazie anche all'ingegno del prof. Occultis e all'intraprendenza di Roddy il trio è sempre riuscito a uscire indenne e vincitore anche dalle situazioni più intricate. Dal canto suo, il prof. Occultis è anche esperto di ipnosi e a seconda delle situazioni riesce ad usufruire di questa tecnica, per addormentare i suoi avversari.
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    Blek Macigno e i suoi amici vivono insieme a una colonia di rivoluzionari in un rifugio segreto all'interno di una foresta. Blek è il capo indiscusso di questo gruppo e in più di un occasione ha portato i rivoluzionari alla vittoria contro le attrezzatissime giubbe rosse inglesi, preparate e imbattibili in campo aperto, ma disorganizzate quando si tratta di combattere all'interno della foresta, dove i trappers conoscono ogni più piccolo nascondiglio. Sono in pace con tutte le tribù di indiani locali, anche se non di rado questi ultimi vengono costretti da parte degli inglesi a schierarsi contro Blek e i suoi trappers patrioti. Fra i vari nemici che hanno messo in seria difficoltà Blek Macigno ricordiamo Feroce Ferocio, un uomo cattivissimo e altrettanto forte e abile con le armi, la cui unica missione nella vita è quella di uccidere Blek Macigno. E' stato allevato dagli inglesi che lo hanno tenuto in cattività, insegnandoli tutte le discipline del combattimento e facendolo diventare una terribile macchina da guerra. Ma anche qui, dopo una serie di avvenimenti che metteranno in luce la crudeltà di quest' uomo, Blek Macigno riuscirà ad avere la meglio.
    Il grande Blek rappresenta un fumetto storico che ha contribuito, così come tanti altri a diffondere il fumetto in Italia e vanta ancora oggi un nutrito gruppo di appassionati lettori e collezionisti.
     
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  20. olandiano

    olandiano User

    Che un altre grande ancora embri...

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